Bring Her Back

Di Duilio Scalici

Quando vado al cinema, cerco un rifugio. Un luogo dove il buio diventa complice e lo schermo una finestra aperta su mondi altri. Ma troppo spesso questa magia viene infranta: le sale affollate, la gente che arriva in ritardo trascinandosi dietro la maschera con la torcia accesa, le voci che bisbigliano e poi si fanno chiacchiera, come se la realtà non riuscisse a stare fuori nemmeno per un’ora e mezza. Ecco, un po’ di tutto questo è accaduto giovedì 31 luglio.

Eppure, nonostante il brusio e il fastidio, a volte basta un buon film per rimettere tutto al suo posto.

Sono un appassionato di horror, ma non di quelli costruiti su urla improvvise e facili spaventi. Amo i film che ti scavano dentro lentamente, che mettono a disagio non perché qualcosa salta fuori dallo schermo, ma perché qualcosa ti si muove dentro. Horror che, se privati degli elementi soprannaturali, resterebbero comunque grandi drammi, grandi racconti sull’umanità, sul dolore, sulla perdita. È per questo che sono entrato in sala quella sera: per vedere Bring Her Back, il nuovo film dei fratelli Philippou. E ne sono uscito con molto più di quanto mi aspettassi.

Dopo l’ottimo Talk to Me – un esordio che, a distanza di tempo, ancora mi brucia sotto la pelle – i Philippou tornano con un’opera matura, intensa, visivamente potente. Bring Her Back è un horror sì, ma anche una poesia cupa sull’amore, sull’ossessione e su ciò che siamo disposti a sacrificare per non perdere chi amiamo. La regia è sicura, la fotografia evocativa, la suspense ben dosata. Ma ciò che colpisce di più è l’emozione, quel filo sottile che lega spettatore e personaggi, portandoti a provare empatia anche quando la trama si fa inquietante.

Sally Hawkins è semplicemente magnetica. Il suo legame con l’acqua in qualche modo – metaforico e narrativo – ritorna dopo l’incredibile interpretazione nel capolavoro di Del Toro e attraversa tutto il film come un sussurro sommerso, diventando simbolo di un’esistenza in bilico tra il mondo di sopra e quello di sotto, tra ciò che si può dire e ciò che resta inespresso. La sua interpretazione è dolorosa, delicata, intensa.

Il film inizia con semplicità, quasi con familiarità, come un racconto che credi di conoscere già. Ma poi cambia ritmo, si contorce, si addentra in territori meno prevedibili. Non lo definirei migliore di Talk to Me – che rimane un colpo all’anima – ma è un’opera che dimostra una crescita, una consapevolezza, una voglia di non ripetersi. Una seconda prova registica che non solo conferma il talento dei Philippou, ma lo espande.

Alla fine della visione, uscendo dal cinema mentre il brusio della sala si spegneva alle mie spalle, ho provato quella sensazione rara: non solo di aver visto un buon film, ma di essere stato toccato da qualcosa… forse una domanda: cosa saremmo disposti a fare, davvero, per riportare indietro chi abbiamo perso?

Forse è questa la vera forza di un buon film horror: non quella di spaventarci con il mostruoso, ma di turbarci con le domande che lascia, quelle che iniziano quando lo schermo si spegne.

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Foto di copertina di Duilio Scalici


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