Yellow submarine

Di Cristi Marcì

La terra continuava a tremare.
Il fischio dei missili e il sordo rumore delle bombe graffiavano il volto di un pianeta che in superficie si leccava giorno dopo giorno le ferite.
Sui balconi delle case non c’era più posto per i fiori.
Il tempo dei segreti, ben custoditi tra i petali al calar della sera, aveva assunto la fragranza della polvere da sparo, che al tramonto del sole e al sorgere della luna si depositava come se nulla fosse sui volti dei bambini e sul ventre di madri senza nome.
Lì, in superficie, il mondo aveva smesso di respirare mentre melodie lontane e antiche preghiere si tramutavano con prepotenza in urla di dolore e in perdite impossibili da colmare.
Distogliendo l’occhio dal periscopio, Paul incontrò lo sguardo dei suoi compagni, atterriti più che mai da tutta quell’ordalia che insieme, tanti anni prima, avevano tentato invano di fermare con le loro canzoni.
Le armi si erano sostituite alle parole mentre il fuoco degli incendi, dominante ogni singola porzione del pianeta, divampava spegnendo con tremenda risolutezza l’immaginazione, e con essa l’amore e il rispetto verso la vita.
Con indosso i suoi inconfondibili occhialini, John scrutava dall’oblò del sottomarino quell’incommensurabile catastrofe profilarsi all’orizzonte.
La musica si era rivelata la sua ancora di salvezza, l’unico monito con cui gridare una volta per tutte la fine di una guerra che nel corso dei secoli non aveva dato tregua al genere umano.
Perché “l’uomo”, si trovò a pensare in quel preciso istante, “si nutre solo dell’odio verso i suoi i simili?”.
È l’unica benzina capace di alimentarne la sua banale esistenza su questo pianeta.
“Non immaginavo tutto questo” esclamò d’un tratto.
“Chi poteva aspettarselo” rispose Ringo con un paio di bacchette infilate nella cintura.
“Una volta facevano la guerra per accaparrarsi un posto ai nostri concerti, ora invece ciascun vicino invade il posto dell’altro”.
“Vi ricordate quella passeggiata ad Abbey Road a Londra?”.
“E come potremmo dimenticarla George” rispose Paul accordando con fare solenne il basso e posizionandosi comodamente sul materasso della cuccetta.
“Ti prego Paul mettilo giù, non ha più senso ormai”.
“Dio come sei invecchiato John, una volta ti piaceva. Mi hai perfino chiamato nel bel mezzo della notte per gridarmi dall’altro capo del mondo che avevi pensato a una canzone”.
“Sì, immaginavo soltanto un mondo diverso ma componendo quel testo e cantandolo al mondo intero non ho concluso un bel niente” rispose con amarezza sistemandosi gli occhialini sul naso.
“Mi hanno perfino ucciso per questo” aggiunse con lo sguardo oltre l’oblò.
Senza che se ne fosse accorto la figura di McCartney si era stagliata di fronte a lui e non chiedendogli alcunché gli pose in grembo una chitarra acustica color marrone.
“Se sei sprovvisto di immaginazione le tue dita non meritano di toccare queste corde, ma se ti è rimasto ancora un briciolo di speranza di fronte a tutto questo inferno allora la tua voce potrà scavare negli abissi dell’uomo e provare a ricavarne qualcosa”.
“Credi davvero che servirà a qualcosa?” si intromise con un cenno di stupore Ringo, “insomma prima dello scoppio della guerra ogni manifestazione artistica è stata condannata con l’immediata pena di morte”.
“La gente ha paura di tornare a sognare, ma se non li aiutiamo che senso avrebbe immergerci nelle profondità di quello che desideriamo?”.
“George per te cos’è la fine del mondo?” chiese subito dopo voltandosi verso il chitarrista.
“Non far scivolare più le mie dita lungo il corpo della chitarra, se non suono almeno un’ora al giorno sento che potrei dissolvermi o perfino morire”.
“E tu Ringo?”.
“Le bacchette sono l’estensione delle mie dita Paul, lo sai” rispose il batterista giocando con quelle inseparabili stecche di legno.
Senza parlare interrogò con sguardo severo il quarto membro di quella ciurma secolare.
Le sue mani toccavano quel corpo di legno che per quanto all’apparenza sconosciuto gli aveva sempre restituito la gioia di vivere, anche durante le innumerevoli crisi nelle stanze d’albergo con Yoko.
“Ci toccherà scendere in profondità se vogliamo che le onde dei nostri sogni scuotano qualcosa là fuori” rispose John scostando con rassegnata speranza una ciocca dei capelli.
Prima di procedere all’immersione George diede un ultimo sguardo a quel mondo ormai irriconoscibile.
Il suono della musica rischiava di estinguersi per sempre, ma loro erano stati mandati ancora una volta da un Dio sconosciuto per ricordare al pianeta intero che nelle profondità degli abissi c’era ancora posto per vedere sbocciare un nuovo petalo profumato ricolmo di una rinnovata meraviglia.
“Immersioneee!!!” esclamò a gran voce McCartney suonando la campana subacquea.
“Sì capitano” gridò all’unisono il resto della ciurma, dando un’ultima accordata ai rispettivi strumenti.
E mentre il mondo là fuori urlava a gran voce la propria incapacità di vivere, da qualche parte nelle profondità delle acque, dove l’esplosione delle mine non si scontra con le note inafferrabili della musica, quattro ragazzi cominciarono a suonare e a cantare a squarciagola un ritornello di fronte al quale perfino la guerra doveva piegarsi.
Perché nelle profondità del mare un sottomarino giallo sapeva trasformare i lamenti del mondo in nuove melodie pronte ad essere cantate.
E a fare del sogno una possibile realtà.


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