Outsider

Di Cristi Marcì

La terra continuava a tremare.

La fronte inizia a imperlarsi di sudore.

Minute goccioline tracciano un filo d’argento che fende l’oscurità della stanza, dove l’ombra di scenari lontani graffia ogni sera la pelle del suo inconscio.

Anche stanotte il copione è lo stesso, incontrarlo quando l’incubo lo traghetta verso un’isola amorfa e priva di certezze.

Madido di sudore e con un tamburo nel cuore spalanca gli occhi, mentre la memoria percorre a ritroso la mappa di un luogo che non ha mai lasciato: ma dal quale è sicuro di essere fuggito.

Un posto in cui lo spazio e il tempo offuscano ogni possibile via d’uscita.

Sotto il soffice cuscino le dita stringono la punta di un oggetto acuminato con cui allontanare una creatura antica.

“Ancora tu!” esclama mentre i primi conati di vomito emergono dagli abissi di un corpo che non conosce più e di cui si sente ormai prigioniero.

Nel timore che la pelle si dissolva le mani solcano frenetiche il viso, scivolano sul collo per poi strisciare verso il basso ventre così da consentire ai polpastrelli di sfiorare ruvidi rimasugli cicatriziali a conferma di quanto accaduto nei giorni appena trascorsi.

Il buio diviene sempre più fitto, il silenzio una profonda voragine pronta a risucchiarlo mentre un interruttore nel cervello riavvolge il nastro dell’ultima allucinazione.

Improvvisamente una scarica gli mozza il respiro catapultandolo in un luogo in cui il pensiero è pilotato da una forza più grande e il richiamo di una voce amica è ormai l’unica bussola che gli resta.   

Eri negli spogliatoi della scuola dopo l’ora di educazione fisica, ti stavi cambiando la maglietta.

Non sei mai stato loquace”.

A parlare sono sempre stati i suoi risultati scolastici anziché i rapporti con gli altri: quelli li ha sempre tenuti alla larga costringendolo a un mutismo e al puntuale scherno dei compagni.

Mentre la tua mano pescava dallo zaino la maglietta pulita hai sentito dei passi provenire fuori dallo spogliatoio.

All’inizio non ci hai fatto caso, dopo però degli artigli affilati ti hanno afferrato per i capelli”.

Secondo quanto riportato da Peter e trascritto sul verbale, ogni blando tentativo di fuga era stato negato dall’atroce veleno dell’immobilità di fronte al quale l’unico antidoto era rimanere fermi.

Nell’attesa che tutto finisse.

“Mi sentivo impotente, le braccia non rispondevano, reagire non era nei miei diritti”.

“Poi cosa è successo?”.

“Ho sentito uno strano calore sul collo e una voce ferma proferire queste parole: vediamo se ora parli.

E a quel punto ho capito che si trattava di Tom e della sua banda”.

Mentre un nuovo ricordo si insinua nella sua memoria ostacolando ogni possibile via di uscita un lampo di energia gli brucia lo stomaco come lava incandescente e il bisogno di espellere una sostanza sconosciuta diventa sempre più impellente.

“Perché se la carne ha bisogno di vivere, i miei ricordi dopo quel giorno desiderano solo la morte, il perentorio distacco da un corpo che non riesco più a reggere dopo quanto subito quella mattina”, aveva confidato alla psicologa dell’anticrimine.

“La lama è l’unica amica che conosco e che lascio entrare, la solo rimasta per contrastare un demone che sento vivere nel profondo; l’unica con cui espellere viscide sensazioni che mi hanno una persona mostruosa e incapace di ribellarsi”.

Con il coltellino in mano e il buio a fargli da scudo, pratica in maniera chirurgica una prima incisione sul braccio sinistro, così profondo che il sangue inizia pian piano a zampillare.

Mentre continua a scalfire una carne custode di indecifrabili vissuti, il silenzio che lo avvolge rende ancora più sfocate sensazioni ormai cristallizzate, incapaci di raggiungere una coscienza dove il grido bulimico della sua anima si alimenta di paure sempre più oscure.

Man mano che il sangue prende vita sulla pelle, la soglia dell’attenzione gradualmente diminuisce e il mondo attorno diventa ancora più sfocato.

Tuttavia un particolare salta all’occhio prima che il morso metallico lo restituisca a un sonno profondo e incosciente: una figura appare sospesa sopra di lui.

“Sentivo il corpo farsi più leggero, svuotarsi di una sostanza abnorme che sino a quel momento avevo soltanto percepito dentro di me.

Fluttuava viscida e ricolma del mio stesso sangue.

La morte stendeva il suo velo, donando vita a quell’essere che si faceva beffe della mia immobilità”.

Ha due occhi rossi come il fuoco e una serie di tagli sulla pancia da cui sgorgano sostanze fluorescenti.

Non so di che si tratti, l’incubo mi vuole tutto per sé, farmi suo.

Buonasera Peter”.

“Chi sei?”.

Sono quanto di più orrendo vuoi evitare”.

“Cosa vuoi da me?”

Soltanto aiutarti”.

“In che modo?”.

Sono il riflesso di ciò che non vuoi guardare. Stai dilaniando la nostra pelle e disperdendo il nostro sangue”.

Ero immobile, incapace di espellere il più semplice soffio di vita.

“Cos’altro Peter”? aveva insistito la psicologa.

“Mi aveva offerto l’opportunità di fare del silenzio il mio più intimo grido, pronto a illuminare l’abisso delle mie paure.

Si adagiava sopra il mio corpo, lasciando che le sue sostanze si insinuassero in ogni anfratto del mio organismo”.

“I tuoi genitori hanno riferito che ti sei svegliato urlando”.

“Si, gridai come non avevo mai fatto in vita mia. Una volta sveglio non ero più in grado di distinguere la mia esistenza dal sogno.

Ero come in un limbo, tra la veglia e un mondo ricco di alternative, tra queste quella che mi si presentò l’altro giorno una volta tornato a scuola”.

“Peter, hai ucciso tu Tom?”.

“No, è stata la bestia”.

Una volta terminato il colloquio la psicologa uscì dalla stanza del reparto psichiatrico giudiziario, al quale Peter era stato inviato dopo che il suo compagno di classe era stato rinvenuto con la testa separata dal resto del corpo nello spogliatoio.

“Vediamo adesso chi parla” aveva detto sogghignando una volta rimasto da solo al buio nella stanza del reparto.

*

Immagine: Johann Heinrich Füssli, Solitudine dell’alba, 1794-1796.


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