Il capp… libro

A Via della Fornacchiara, al quinto piano di un edificio esausto, sedeva l’impiegato secondario Akakij Akakievič Bašmačkin Bisonti. Bisonti è il cognome, l’altro, o meglio gli altri tre, il nome – il padre, di Pomezia, era appassionato fra le altre cose di onomastica zarista. Ufficialmente addetto alle fotocopie delle digitalizzazioni delle note interne, Bisonti viveva nella più impeccabile mediocrità amministrativa. I colleghi, tutti di grado superiore al suo, lo schernivano continuamente battendogli la mani sul capo come faceva Benny Hill col suo amico pelato. Il suo ufficio era di una tristezza mortifera, ma in quel singolare grigiore splendeva più bello che mai un enorme libro, per la precisione il Volume XI “Metafisica – Mutismo” della Grande Enciclopedia dell’Inutile Ingordigia, stampa 1966, rilegata in pelle di pensionato, dono del padre il giorno in cui il figlio venne assunto dall’azienda dietro meritevole raccomandazione. Bisonti, che era un cane (con tutto il rispetto per i cani) aveva adottato quel libro come base per il suo computer aziendale, un pachiderma elettronico che, privo del sostegno, avrebbe inclinato lo schermo in modo da riflettergli perennemente il naso. Quell’oggetto era l’unica cosa che agli occhi di superiori e inservi(e)nti lo rendeva meritevole di uno briciolo di dignità. L’enciclopedia era diventata, col tempo, il suo vanto. Ogni mattina la spolverava con la manica del suo pullover color senape. Nessuno poteva toccarla. Aveva cominciato persino a parlarle sottovoce, chiamandola affettuosamente “Meta”, come il titolo in copertina suggeriva.

Ma un lunedì (i lunedì sono giorni di crudele indifferenza), accadde il fatto terribile. Arrivato in ufficio, Bisonti si accorse che il libro era sparito. Svanito nel nulla più buio. Rimosso come un’illusione notturna, senza biglietto d’addio né indizio. Il computer giaceva ora sbilenco come un impiegato al terzo caffè. Bisonti impallidì. Guardò sotto la scrivania, poi sopra l’armadio, poi dentro il termos. Nulla. Corse allora, con passo che era già tragedia, dal Capufficio, il Signor Rag. Patanosso, uomo la cui fronte pareva progettata per rimbalzare responsabilità.

– Scusi, ma… l’enciclopedia, Il mio libro, Il mio… sostegno! È sparito!

Patanosso lo fissò come si fissa un moscerino su una parete.

– Sicuro di non esserselo portato a casa venerdì, Bisonti? A me succede spesso di non ricordare le piccole cose insignificanti, come lei.

– Ma se pesa 48 chili!

– Si adatti, Bisonti. C’è chi lavora in piedi in questo ufficio. Si trovi un altro sostegno.

– Sì ma ci tenevo io a quel libro… scusi ma… me l’hanno rubato! Non le importa che i suoi dipendenti vengano derubati!?

— Ah! questo lo dice lei. Non ha nessuna prova per gettare discredito su questa gloriosa azienda.

– Ma no, ma no, non volevo dire… insomma, non fa niente, mi troverò un altro sostegno.

Bisonti cercò dappertutto, chiese a chiunque, si dannò come nessun uomo si era mai dannato sulla faccia della terra. Una collega impietosita gli fece credere di avere una pista, di aver individuato il colpevole, un certo GianGino Ranucchio, cleptomane senza speranza (e senza deodorante). Ma niente. Del libro nessuna traccia. E fu così che cominciò il declino del povero Bisonti. Tentò di usare altri libri, ma erano troppo sottili. Provò con vecchi faldoni, ma odoravano di immoralità. Una volta usò un panettone, ma si sciolse a causa della disperazione che ormai abitava quel luogo. I colleghi iniziarono a evitarlo. Dicevano che accarezzava le stampanti sussurrando nomi di voci enciclopediche, che aveva costruito un altare con fascicoli di scarto.

Finché, un mattino, Bisonti non si presentò più.

Da allora si racconta che il suo fantasma vaga per i corridoi dell’azienda rubando libri a tutto spiano.

s.


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