Di Duilio Scalici
Quando ho iniziato a suonare, è stato per colpa – o per merito – di uno strano sentimento che mi smuoveva da dentro, qualcosa di inspiegabile e potente. Il mio primo strumento è stata la batteria. Da lì è partito tutto: la voglia di imparare, migliorare, suonare dal vivo, mettere su una band, sentire l’energia del pubblico mentre ascoltava la nostra musica.
La musica, per me, è magia allo stato puro. E proprio questa magia, a un certo punto, mi ha spinto a scrivere canzoni. È successo in modo naturale, quasi inevitabile, con il primo brano della mia band attuale, I Giocattoli.
Venivo da un momento emotivamente difficile. Per trovare un po’ di pace, abbracciavo una chitarra che a malapena sapevo suonare. Ma il sentimento che avevo dentro era troppo forte: così è nata la mia prima canzone.
Perché la musica fa questo. Smuove l’animo. Ti salva. Ti porta via. Credo che il suo scopo più profondo sia proprio questo: offrire a chi ascolta un rifugio, un mondo sonoro e testuale scritto da qualcun altro, ma che riesce a rispecchiare esattamente ciò che provi.
È lì che nasce la magia più grande: quando musicista e ascoltatore si incontrano, pur senza conoscersi. Quando una canzone ti fa sentire meno solo. Quando ti tocca così nel profondo da spingerti, magari, a prendere in mano uno strumento e iniziare anche tu a suonare.
Cosa c’è di più bello di questo?
Eppure, oggi vedo sempre più spesso brani creati con l’intelligenza artificiale. La Viral 50 di Spotify, per esempio, ne è piena: artisti che non esistono, canzoni generate con software come Suno, voci sintetiche indistinguibili tra loro, testi (forse) scritti da umani, ma spesso no.
Se hai un po’ di orecchio, ti accorgi che le voci – maschili o femminili – si assomigliano tutte. Cambiano forse tre tonalità in croce. E anche tra i diversi “artisti”, alle volte il timbro resta lo stesso.
Non sono contro l’AI. Anzi, credo sia uno strumento incredibile, che può davvero aiutarci a raggiungere nuovi traguardi. Ma deve essere usata con consapevolezza, e con rispetto per ciò che la musica rappresenta davvero.
Su piattaforme come Spotify, Amazon Music o simili, forse sarebbe il caso di introdurre un filtro o una segnalazione chiara per indicare quando un brano è stato generato interamente dall’intelligenza artificiale. Non per censurare, ma per dare trasparenza. L’ascoltatore ha il diritto di sapere se sta entrando nel mondo di un artista reale o in un prodotto generato da un algoritmo.
È un tema che mi fa riflettere – e, lo ammetto, un po’ mi spaventa. Viviamo in un’epoca in cui tutto sembra diventare più artificiale, ma nella corsa verso questa presunta perfezione, rischiamo di perdere l’unica cosa che davvero conta: l’autenticità.
La musica dovrebbe emozionare, non semplicemente intrattenere. Dovrebbe farci sentire vivi, non soltanto “coinvolti”.
Forse è il momento di chiederci seriamente che direzione vogliamo dare al futuro della musica. E se vale ancora la pena difendere l’imperfezione umana che rende ogni canzone (o l’arte più in generale) davvero unica.