La migrazione

Di Mondopasca

Quella volta ci dissero che avremmo dovuto traslocare nella palazzina B dell’Ente, perché una Direzione più potente della nostra avrebbe occupato le nostre stanze.

Raccogliemmo le poche cose che ci fu permesso portare via, per lo più fogli intonsi e cancelleria inutile, e bruciammo il resto nei cestini del bagno perché non ne godesse il nemico. Formammo una fila ordinata con in testa Patano, chiusa da noi impiegati più reietti e dalla tirocinante. Patano era l’unico autorizzato a portare con sé una sedia con le rotelle, perché aveva dimostrato, scontrini alla mano, di averla acquistata in proprio. Fu lui a guidare per i corridoi e lungo le scale (gli ascensori erano riservati ai dirigenti) il mestissimo serpentone umano, così diverso dal trenino che alla vigilia delle ferie invernali si era snodato per ore su e giù in una samba sfrenata per la palazzina A. Il tragitto stavolta era scandito da singhiozzi e lamenti, oltre che dai tonfi delle rotelle della sedia di Patano sui gradini.

Usciti dalla palazzina A, incrociammo il corteo trionfante dei vincitori diretto ai nostri ex uffici, capeggiato dal DG vincitore e dal suo altrettanto vittorioso cerchio magico. Sfilammo loro accanto a testa bassa, sforzandoci di ignorarne i lazzi, e ci scostammo per far passare tre dei loro amministrativi che spingevano con fatica un carrello ingombro di una massa misteriosa, coperta da una tela cerata. Affrettammo il passo verso la palazzina B dell’Ente, che ci si stagliava dinanzi a una decina di metri con il grigiore del suo intonaco scrostato. Un passaparola querulo ci informò che eravamo destinati al seminterrato, da poco sanificato dopo un’esondazione della fognaria.

Nell’androne umido e maleodorante, Patano fermò la sua sedia con le rotelle, ci crollò sopra e propose: “Almeno prendiamoci un caffè”. Le adesioni entusiaste del corteo si strozzarono nelle gole: lì dove un tempo c’era un angolo ristoro, ora c’era solo polvere e una ciabatta elettrica orfana della macchinetta. “Se la sono portata dietro”, gridò l’addetto al protocollo. “Bastardi!”, gli fece eco, coraggiosa, la tirocinante, ancora non piegata da anni di servilismo. Patano già spingeva di nuovo la sua sedia mesta verso le scale del seminterrato, ma noi ultimi ci fermammo “È troppo. Così non potremo manco lavorare”. Eravamo ancora sulla soglia della palazzina, guardammo l’ingresso dell’Ente, pochi metri più in là, ci guardammo negli occhi, e trovammo il coraggio di dircelo: “E se cercassimo un posto migliore?”.

Ci lanciammo verso il cancello, saltammo i tornelli senza timbrare, sotto lo sguardo attonito dei portieri e degli agenti di polizia, e fummo finalmente fuori. Iniziò così la nostra nuova migrazione. La prima decisa da noi. L’unica che, fummo subito tutti d’accordo, non si sarebbe mai fermata.

Da allora vaghiamo per il quartiere, occupando di volta in volta un locale diverso. Sfondiamo le porte la sera e i precedenti occupanti la mattina ci trovano lì con i nostri fogli intonsi, con la nostra inutile cancelleria. Mettiamo un cartello: “Vietato l’accesso agli estranei”. E se qualcuno insiste per entrare mandiamo la tirocinante a minacciarlo. Passiamo giornate stupende a organizzare stanze che lasceremo a breve. In meno di un anno abbiamo preso due studi di avvocati, una copisteria, una pizzeria al taglio, la cancelleria del Tribunale e un gabbiotto dei vigili urbani. Intanto altri, da altri Enti, hanno seguito il nostro esempio. Non c’è più ufficio o locale che possa dirsi sicuro. Ora bramiamo una caserma nella strada di fronte. È piena di stanze. È anche piena di armi. Gli altri gruppi potrebbero unirsi a noi. La città è enorme, ci sono così tanti posti dove andare.


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