Di Donato Novellini
Nel 1994, nei paraggi del glorioso Expo Dischi di galleria Mortara a Mantova, bazzicavano metallari, nostalgici degli anni ’70, fan dei Nomadi Vasco Rossi U2, grungisti, soprattutto infatuati di crossover; in città furoreggiavano infatti gusti americani: Rage Against The Machine, Living Colour, Primus, oltre ai celebratissimi Red Hot Chili Peppers e Nirvana. Post-rock e shoegaze inglese non se li filava nessuno, soprattutto quei due cd, da mesi mestamente appoggiati sullo scaffale delle novità d’importazione, sicché li presi io, Indipendency e Hex dei britannici Bark Psychosis, a scatola chiusa. Ignoravo chi fossero, le copertine erano misteriose il giusto, mi incuriosivano, tergiversai fin quando il titolare se ne uscì con un sintetico: “Ah quelli ti piacciono”. Così fu e tante grazie. Capolavori ora quasi mitologici, tardivamente celebrati dalla stampa specializzata, che appagavano la vocazione alla malinconia dei vent’anni (per lo meno dei miei), tuttavia con una raffinatezza inedita rispetto al resto della caciara. Matura? Classica? Snob? Musiche nuove, magniloquenti nel deragliare in altre dimensioni, elegantemente fuori dal tempo. Musiche non condivisibili coi propri coetanei e perciò esclusive. Magie siderali, non prive di rumore e sperimentazione, come fossero colonna sonora di un film irrealizzabile (si riascolti “Pendulum Man”). Musiche moderne, attuali nel ‘94 ma imbastite su atmosfere notturne, jazzate, ipnotiche, cupe fughe psichedeliche posate tra ambient e art-rock, come avrebbero poi fatto Burial o i Mogwai tempo dopo. Pronta venne la definizione mediatica, coniata dall’onnivoro Simon Reynolds – “Post-rock significa usare strumenti rock per scopi non rock” (da Hip Hop Rock, pag. 187, Isbn edizioni) – che inaugurava una lunga serie di affiliazioni e sottogeneri, fino ai giorni nostri e alla vacuità del contemporaneo “post-tutto”. Ebbene Hex è la pietra angolare del genere, l’atto costitutivo, il misconosciuto battesimo, per altro rimasto l’unico vero e proprio album della band di Graham Sutton, fino all’inatteso ritorno dieci anni dopo con il raffinato Codename Dustsucker. Per il resto singoli e raccolte, comunque sempre contenenti preziosità. Scatta perciò inevitabilmente la domanda: può essere dato un “classico” quale è Hex, restando al tempo stesso palesemente ignorato dai più? Ridotto a culto carbonaro per pochi fortunati ammiratori? Tesoretto occultato nei ricordi confusi di cultori alternativi oramai attempati? La copertina del cd non offrirà certamente risposte, ma può servire come scusa per tornare a parlarne. Siamo probabilmente nella periferia di Londra, all’imbrunire nubi gonfie d’indaco sovrastano una panoramica suburbana che pare un dipinto meteorologico firmato da William Turner tornato in vita, una scenografia delle fughe oltre la periferia di quando si era giovani, l’istantanea sgranata dell’estremo margine metropolitano dove resiste la campagna, prima di cedere al cantiere; è come una testimonianza d’innocenza premonitrice, preludio ed epilogo di silenziose libertà fuori dai circuiti dell’immensa città fagocitante, perché poi questo spazio brullo verrà fatalmente saturato da nuove costruzioni. Londra, affamata di terra, è una fucina espansionista che non si ferma mai. Poi saranno solo ricordi, di birre spinelli e pisciate, amori sul plaid, con immediato effetto madeleine. Capolinea di rotaie per treni merci, tralicci dell’alta tensione, luci di alti edifici in lontananza, mentre a destra un vecchio stabile industriale, forse una centrale elettrica, s’accende nell’arancione di bagliori artificiali. In primo piano, deposte sull’erba rossastra, si allungano le ombre dei quattro musicisti. Da allora a oggi è cambiato tutto, soprattutto i colori, filtrati violenza iper-saturata, tendenza ospedaliera ovunque, dai film alla tv, dai centri commerciali all’illuminazione urbana e così gli occhi si fanno sempre più stanchi per il lavoro della vista, si vorrebbe chiuderli. “Where have they been?” si domandava Ian Curtis prima dell’addio, confermando così che alcune domande restano ciclicamente senza risposta. Dove saranno stati i Bark Psychosis dopo quella foto di ombre periferiche, finita in copertina? Forse in un pub a bere stout, forse in un improvvisato studio di registrazione domestico, creando dietro l’anonimato seriale di mattoni rossi capolavori che il distratto mondo ignorerà.

Hex – Bark Psychosis, Caroline, 1994.