Aspettando i Barbari

Di Donato Novellini

Aspettando i Barbari (titolo ispirato da John Maxwell Coetzee, Waiting for the Barbarians, 1980) è cronologicamente il secondo disco riconducibile alla rinnovata fase artistica della band – dopo lo scioglimento nel 1999 – inaugurata nel 2010 con l’eccellente Cattive Abitudini. Un corso stilistico si dirà maturo epperò forse più duro e quadrato rispetto all’urgenza caotica dei ‘90 che porteremo sempre nel cuore, dove qui la declamazione di Clementi assume una sfumatura volutamente sfrontata, aspra e sardonica, letteraria senza mai assecondare la facile retorica del poetare in musica. Le dieci tracce di Aspettando i Barbari, corrispondenti ad altrettanti plumbei sottopassaggi narrativi, come racconti iperrealistici in odor d’America stracca e marcia (Vic Chesnutt) e memorie portuali sambenedettesi (via dei Tigli ne “La Cena”, come “Via Vasco De Gama” citata nel disco precedente) mantengono alta la tensione nei confronti di un’epifania inquietante ma innominabile se non con almanacchi di luoghi comuni resi incongruenti e disfunzionali, assillo mai del tutto risolto in sentenza corrispondente (“Andrea prende una droga che fa dimenticare, Sergio ha una malattia che lo fa addormentare, Mimmo è morto”, da “La Notte”), percezione di accerchiamento o di imminente pericolo, dialettica preda-cacciatore, annichilimento abulia fatalismo e spietatezza primordiale incombente. Appaiono qua e là i fantasmi di Goffredo Parise, Dino Buzzati, John Cage, Bin Laden, Mao Tse Tung. Questa persistente sensazione di attesa, di sospensione un poco ansiogena, trova corrispettivo spiazzante nella copertina del disco: un austero, apparentemente innocente, dipinto a firma Ryan Mendoza (New York City, 1971). Ça va sans dire discendente diretto dal rabbino sefardita Abraham Zacuto, nientemeno colui che disegnò le mappe per Cristoforo Colombo, particolarmente sensibile ai temi dei diritti civili, da tempo vive e lavora tra Napoli e Berlino. Nel 2012 fu accidentalmente arrestato proprio a Napoli, assieme alla moglie incinta, dopo una performance artistica di solidarietà alla band punk-rock russa Pussy Riot, organizzata giusto davanti al suo studio in Rione Sanità. L’opera, dal titolo Le Due Sorelle, è emblematica dello stile tecnicamente revival espressionista seconda metà XX secolo, tratto pittorico piegato però alla contemporaneità delle tematiche prese a soggetto; sguardo esteticamente rivolto all’Europa e a certe velate morbosità borghesi, con segno non dissimile da quello di Balthus e Lucien Freud prima, di Jenny Saville e Paul Beel poi. Altrettanto ambigua, nonostante la sommessa pudicizia, la figurazione della tela è velata da una gravità drammatica appena percepibile nella delicatezza generale della scena. Se c’è un mostro non si vede, aleggia, sta nell’atmosfera. Due giovinette per l’appunto strette fra loro, che poco sembrano avere in comune con il titolo minaccioso dell’album, non foss’altro per lo sguardo protettivo e al contempo diffidente di quella più addietro; colei che sembra farsi carico, attraverso il gesto dell’abbraccio, di un affetto intimo, in qualche modo violato dallo sguardo indagatore dello spettatore, forse del pittore stesso, comunque di qualcuno che non possiamo scorgere. Procedendo per congetture, potremmo supporre che qui i barbari non invitati ad entrare, ma attesi con preoccupazione, siano proprio gli estranei, o forse gli ascoltatori superficiali, i pressapochisti dal giudizio banalizzante, i contemporanei dai gusti barbari. Al di là delle ipotesi contenutistiche probabilmente azzardate, risulta particolarmente apprezzabile la scelta di non deturpare l’immagine pittorica con scritte, tipo titolo e nome del gruppo. A ciò sopperisce un’apposita etichetta adesiva nera posta sulla pellicola protettiva. Grafica asciutta a cura di Kymatica.

Aspettando i Barbari – Massimo Volume, La Tempesta, 2013