Actually

Di Donato Novellini

Neil Tennant e Chris Lowe, dai primissimi anni ’80 titolari del longevo marchio Pet Shop Boys, possono con qualche ragione essere accostati agli artisti visuali Gilbert & George: stesso background culturale londinese, medesimo imperturbabile disincanto, identica formazione a due quasi simbiotica, che si risolve nella scelta di presentarsi dietro maschere distaccate, dietro individualità imperscrutabili. Quell’ironia sottile e un po’ spocchiosa nella riproposizione di stereotipi britannici, il gusto di fare gli avanguardisti ma con piglio conservatore, maniacale cura del dettaglio e capacità di coniugare immediata fruibilità (anche con esiti platealmente kitsch: ricordate l’agghiacciante quanto appiccicosa “Se a vida é”?) con ricercatezza comunicativa, nel caso dei Pet Shop Boys, hanno portato ad un successo commerciale straordinario, mantenuto nel tempo attraverso una formula dalle impercettibili varianti, fino a diventare canone a sé. Ovvero quando il Pop diventa sinonimo di stile e lo stile si fa marchio di fabbrica lambendo arte, design, moda e costume. Similmente alla collaborazione continuativa tra New Order e Il graphic designer Peter Saville, pure i PSB hanno optato per la perseveranza estetica, sovente affidandosi alle cure minimali di Mark Farrow (per altro anch’egli proveniente dal giro Factory Records). A conferma della particolare attenzione verso l’immagine, va ricordata pure l’importante collaborazione, per i video promozionali, col mai dimenticato regista Derek Jarman (Jubilee, Caravaggio, Edoardo II, tra le pellicole più note), morto prematuramente nel 1994 per conseguenze dell’Aids. Actually, il disco della notorietà planetaria dopo l’esordio col botto in patria di Please (1986) – trainato da singoli quali “It’s a sin”, “Rent”, “What have i done to deserve this?” – è il supporto perfetto per approcciarsi alla poetica agrodolce dei “ragazzi del negozio di animali”: musiche sintetiche ma non fredde, accattivanti melodie soprattutto nelle simulazioni orchestrali, voce impostata leggermente nasale, atmosfera generale a tratti melò, a tratti musical Broadway con echi di attigui bassifondi metropolitani, ma pur sempre volta ad un futurismo dance. Grandeur ed enfasi che trovano bilanciamento quasi scientifico nell’elettronica asciutta, e quindi visivamente nel candido minimalismo della famosa copertina. Così come i titoli degli album, da sempre risolti in una parola sola fino al recente Nonetheless (2024), anche l’immagine pubblica deve ribadire quel mix di rigore formale e ironia, di intelligenza e disimpegno, d’intellettuale snobismo. La stravaganza non è mai fine a se stessa, difatti i due, elegantissimi in smoking, sono ritratti dalla vita in su, l’uno accanto all’altro, sotto il titolo in caratteri minuscoli. Chris impassibile come sempre, Neil più prosaicamente nell’atto di sbadigliare. Rappresentazione entrata prepotentemente nell’immaginario collettivo degli anni ’80, è accompagnata incongruamente nella busta interna da uno scatto assai meno glaciale, finto underground o di suburbia ricostruita in studi fotografici, decisamente meno efficace tenendo conto della sobrietà del packaging. Tornando alla cover, a prima vista i due potrebbero essere scambiati per un’affiatata coppia di comici, versione british humor ovviamente, in grado di mantenere l’imperturbabilità a fronte di qualsivoglia tipo di pubblico. Sottotraccia permane quella tipica impressione di giocosa artificiosità nelle mosse dei londinesi, posa per l’appunto tutt’altro che rigida o alienante come in altre sigle sinth-pop, semmai accostabile per affinità agli antesignani Sparks. Quello che li ha sempre contraddistinti è infatti il perfetto gioco delle parti interno, l’alchimia tra alto e basso che da quarant’anni continua ad eludere la domanda: ma i Pet Shop Boys, ci sono o ci fanno?

Actually – Pet Shop Boys, Parlophone, 1987.


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