Di Donato Novellini
Partiamo dalla fine, o meglio da una fine, emblematica quanto tragica. La scena dovrebbe essere nota ai più: periferico interno di città inglese, bottiglie vuote a terra, posacenere stracolmo, alta sagoma umana pendente dallo stendi-panni cigolante e, sul piatto del giradischi, il vinile di The Idiot di Iggy Pop che gira a vuoto in brusio cadenzato, inceppato nell’ultimo, definitivo, solco. Un addio al mondo e al successo messo in loop, al farsi dell’alba. Il severo bianco e nero di Control, film del 2007 di Anton Corbijn (già fotografo dei quattro di Manchester e in seguito di molte altre rock band tipo U2, Nick Cave e Depeche Mode) incentrato sulla breve storia dei Joy Division e di Ian Curtis, e quello della copertina in questione, trovano incontro paradigmatico alla fine degli anni ’70, portandosi appresso un fardello artistico altamente suggestivo; Curtis e Osterberg: con tre anni di mezzo la morte dell’uno pare essere vagamente speculare alla rinascita dell’altro. Una sorta di travaso generazionale, coi gruppi punk in palese devozione autodistruttiva alla triade Reed, Pop, Bowie, e questi ultimi in grado di sfruttare abilmente la nuova onda per fondare – di nuovo e da capo – il codice musicale degli anni a venire, sopravvivendo come nel caso dell’Iguana alla propria pericolosa condotta: ciò che non ti distrugge ti rafforza e ti porta in sovrappiù l’epica leggendaria del resuscitato, quale privilegio da vivo. Ecco quindi un disco imprescindibile che cita palesemente Fëdor Dostoevskij nel titolo, gemello tedesco dell’epocale Heroes, profondamente impregnato di nichilismo europeo e di inquietudini post-belliche già intrise di umori decadenti, da spleen odorante kebab e guerra fredda. La fabbrica fumante, il muro, ingranaggi arrugginiti, portamento austero, baveri alzati di grigi gendarmi, viali alberati d’inverno, neon U-Bahn, polvere bianca e discoteche per giovani automi improduttivi. Collasso di nuovi edifici (cit.), macerie e bunker, insegne luminose mutuate dagli “amici americani”. Soggiorni inquieti, innesti artificiali nel corpo vecchio e malato del rock, futuro e simulazioni totalitarie, funky e manopole, droghe all’avanguardia. Tutto ciò si fece leggendaria diarchia estetica, legame siamese e affinità elettiva, per l’appunto con l’Helden berlinese di David Bowie. Difatti le due copertine mostrano i rispettivi protagonisti immortalati in quello che potremmo definire, teatralmente, un gesto controllato: posa rigida, robotica, fissità di marionetta brechtiana o risultato di una post-produzione di Leni Riefenstahl, epifania Kraftwerk. L’ispirazione, in entrambi i casi, è riconducibile a un quadro del pittore espressionista tedesco Erich Heckel, intitolato “Roquairol” (1917, ora MET di New York). Quasi rock’n’roll, stando alla pronuncia assonante. Si torna dunque indietro ai primi del ‘900 e il riferimento principale per tale codice pittorico è ovviamente Edvard Munch. Quello dell’Urlo e dei ritratti spiazzanti di Nietzsche. Proseliti dunque. Heckel è difatti genio minore, con una carriera che va dal Blaue Reiter di Wassily Kandinsky e Franz Marc alla messa all’indice per degenerazione artistica da parte del regime nazionalsocialista; inserito nell’enciclopedia dell’arte nel girone degli epigoni, relegato nella nozionistica di tutti quei tardo-romantici in crisi d’identità, turbati al cospetto del mondo nuovo in fieri. Riscoperto proprio grazie al dipinto “Roquairol”, Heckel anticipa clamorosamente tutta la stilizzazione del Man Machine a venire, diventando nello specifico chiave spaziotemporale per il trasporto di mr. Osterberg nell’attualità di fine secolo scorso, approdo stilistico nella sua seconda vita musicale dopo gli epici esordi con Stooges. “Prima di commuoverti, ricorda che in quanto robot devo fare tutto quello che mi chiedi” (Interstellar). Come un cameriere senza vassoio, ma nell’atto di sorreggerlo, Iggy Pop trova così un nuovo costume da scena. Ecco quindi l’animale ribelle da palcoscenico, il dionisiaco indomabile tramutarsi in artificiale automa da catena di montaggio. Ecco l’Idiota, una specie di sinonimo d’eterno prodigio.

The Idiot – Iggy Pop, RCA, 1977.