Ovvero la simbolica chiusura del cerchio dei mancuniani
Di Donato Novellini
Amatissimo, consumatissimo, adoratissimo disco sopra ogni altro, Technique fu l’ultima uscita di Sumner, Hook, Morris & Gilbert per conto della storica etichetta indipendente Factory Records, ovviamente e fieramente di stanza a Manchester. All’epoca del casuale acquisto del vinile, in un mercatino dell’usato, non fu però amore a primo ascolto. Nei primissimi anni ’90 si era ancora impastoiati nella rigida devozione ai predecessori Joy Division e delle evoluzioni pop dei superstiti poco si voleva sapere, tuttalpiù ci si fermava ammirati a Power, Corrution & Lies (1983). Poi, non è dato ricordare come e quando (forse l’ascolto ripetuto e dopato dell’ipnotica “Round & Round”), tutto mutò e quel disco senza singoli clamorosi divenne chiave per aprire mille altre porte musicali. Un passpartout di forti contrasti, armonizzati dal titolo vagamente allusivo alla macchina del suono sintetico, e una sola parola, come hanno sempre usato fare i Pet Shop Boys per i loro dischi. Sì, alto e basso è questo il criterio giusto per capire i New Order. Cazzeggio ibizenco e appunti malinconici, elettronica massimalista e acustiche costruzioni artigianali, dancefloor e falò del passato, notti di pasticche colorate giallo smile-house e albe estive in spiaggia ad ammirare i colori del cielo nell’atto di aprirsi, immemori della notte precedente; ma pure fabbriche in mattoni rossi, ciminiere fumanti, periferia senza centro di una città come Manchester, dalla quale non si può fuggire realmente perché te la senti addosso, è un canone, uno stile di vita. Alienazione e sballo. Artificio e spontaneità, esistenzialismo e sarcasmo, polarità tenute insieme da alcune costanti immutabili: le micidiali linee di basso di Hooky, il cantato distaccato e strafottente di Barney, gli squarci di luce di Gillian alle tastiere e la metronomica programmazione ritmica di Morris. Non è tutto, però. Anche la grafica, sempre curata da Peter Saville fin dai tempi di Unknown Pleasures (1979), è marchio di fabbrica inconfondibile. Il designer mancuniano potrebbe darci da scrivere per anni, tuttavia ci limiteremo qui ad alcune considerazioni specifiche. La cover di Technique è in fondo un cerchio simbolico che si chiude, come se zenit e nadir avessero trovato la perfetta sintesi iconografica. Cos’è quella scultura di putto, infatti, se non un richiamo subliminale all’estetica cimiteriale di Closer? All’epilogo della vita artistica precedente? Fosse in bianco e nero potrebbe tornare utile per agghindare qualche bootleg dark, ma il genio di Saville optò per un’alterazione cromatica
acidissima, consegnando così tutti i fardelli di quella storia oscura – quasi fagocitandola – all’ebbrezza contemporanea del 1989. Sfondo che dal lilla sfuma nell’indaco, quindi nel viola. Riflessi azzurrognoli sulla scultura, al solito niente titoli o ragione sociale in fronte (verranno poi inseriti sulle ristampe, ma senza impattare più del dovuto). L’immagine ha la forza per riassume la vicenda musicale, più delle parole. Nella busta interna medesimo soggetto angelico, ancora più Pop-art con lo sfondo giallo e alterazioni violacee, che stavolta vanno ad impattare direttamente sulla figura marmorea. Talmente postmoderno, quell’angioletto, da sembrare di gomma o di porcellana firmata Jeff Koons. Come in un gioco enigmatico di omaggi postumi, la fedeltà alla struttura – ben narrata dai celeberrimi scatti di Staglieno, vedi “Love Will Tears Us Apart” e Closer – si mescola con il tradimento della patina colorata, che sperpera il tratto funebre in un caleidoscopio di ludica alterità. Saville si concesse un richiamo all’ordine per il retro, rigorosamente grigio, con superbo font bianco e rosa. Posarlo sul piatto oggi è un atto fuori dal tempo, nel senso che la bellezza così variegata dei 9 pezzi in scaletta travalica la moda dell’epoca, di qualsiasi epoca, per consegnarsi alla storia. Una storia meravigliosa quella dei New Order, perché sempre nuova epperò non priva di memoria.

Technique – New Order, Factory, 1989.