Ritchie Blackmore

Ritchie Blackmore nasce il 14 aprile 1945 a Weston-super-Mare, Inghilterra, sotto il segno dell’Ariete. A fine anni ‘60 entra nei Deep Purple, una band che inizialmente fa cover dei Beatles e di altri gruppi in voga, ma che con lui alla chitarra diventa una macchina da guerra hard rock. L’album Machine Head del 1972 è la Bibbia per ogni chitarrista che si rispetti: dentro c’è “Smoke on the Water”, il riff più suonato (e vietato nei negozi di strumenti musicali) della storia. Blackmore suona come se avesse fatto un patto con il diavolo: velocissimo, preciso, barocco, spesso incazzato. La sua tecnica è un mix micidiale di blues, musica classica e malumori personali. Pioniere dell’uso della scala minore armonica nel rock (quella che suona “malvagia”), inserisce fraseggi neoclassici ben prima che il termine “neoclassico” diventasse un’etichetta da chitarristi coi capelli cotonati. Fa tapping prima che Eddie Van Halen lo rendesse famoso, usa il tremolo con l’eleganza di uno che ha studiato Paganini in garage, e infila arpeggi veloci e furiosi come se stesse lanciando dardi. È anche un maestro nell’uso del feedback, degli armonici artificiali, e – quando gli gira – dell’improvvisazione più totale: i suoi assoli dal vivo cambiano sempre, come se stesse costantemente cercando la versione perfetta di se stesso, senza mai trovarla (né volerla trovare). Per capirlo davvero, ascoltate “Child in Time”: dieci minuti di lamenti, preghiere e bestemmie soniche. Poi, a un certo punto, si è rotto le scatole dell’hard rock e ha fondato un gruppo rock rinascimentale con la moglie, i Blackmore’s Night. E anche se oggi preferisce le taverne alle arene, resta uno dei pochi chitarristi capace di unire potenza, classe, mistero e follia.

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Disegni di Maurizio Di Bona, testi di Stefano Scrima


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