Quando la pietra è pigra

Di Michele Savino

Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
– Non ho porta – dice la pietra.

Wislawa Szymborska

I giapponesi hanno una parola per definire le pietre dotate di particolari qualità estetiche o potenzialità evocative: il termine suiseki ha origine dall’accostamento delle parole “acqua” e “pietra”, alludendo da un lato all’azione dell’acqua che modella la forma della pietra e dall’altro alla tradizionale pratica di esporre queste pietre in particolari vassoi contenenti acqua.

Si ritiene che l’arte del suiseki abbia avuto origine circa 2000 anni fa in Cina, dove piccole pietre di eccezionale bellezza naturale erano poste su specifiche basi o supporti per rappresentare leggendarie isole e montagne, associate a credenze buddhiste o taoiste. Nel VI sec. d.C. emissari provenienti dal continente portarono alcune di queste pietre in Giappone. I giapponesi ne adattarono l’arte ai propri gusti, praticandola fino ai nostri giorni.1

Prelevare una pietra dal suo contesto naturale significa sottrarla a quell’insieme di processi di erosione che ne hanno determinato la forma e che, essendo essi impercettibili e costanti, continuerebbero a plasmarla fino a eroderla completamente; un suiseki è quindi una pietra temporaneamente esonerata da questo universale processo di consunzione, un oggetto contemplativo scevro di qualsivoglia utilità pratica.

Potremmo vedere nel suiseki anche una pietra riluttante al lavoro: scartata come materiale da costruzione e contemporaneamente sottratta al lavorio incessante degli agenti atmosferici. Una pietra superbamente inutile, che si limita a mostrarsi manifestando indolente la propria forma.

Si potrebbe dunque considerare l’inutilità come una particolare forma di pigrizia, dove il pacato rifiuto della strumentalizzazione spalanca le porte di un singolare privilegio esistenziale. Lo stretto legame che intercorre tra inutilità e libertà è tematica ricorrente nel pensiero cinese antico, in particolare in alcuni passi del Zhuang-zi, dove si constata come gli alberi il cui legno è inadatto a qualsiasi utilizzo sopravvivano agli alberi presto tagliati per il proprio legno pregiato, similmente agli animali cacciati per il manto prezioso o la carne prelibata:

Gli alberi della montagna si attirano le sventure; il grasso alimenta il fuoco che lo brucia; l’albero della cannella viene scorticato perché commestibile; l’albero la cui lacca è utilizzabile subisce l’incisione. Tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma nessuno sa l’utilità dell’inutile.2

Nell’antichità il saggio taoista era solito definirsi come un uomo inutile, considerando l’inutilità come presupposto per la saggezza; l’inutilità consente al saggio di conservare intatta la propria energia vitale e di vivere pienamente l’esistenza concessagli dal destino.

In una società come l’attuale, dove vige il dogma dell’efficienza e dell’utilità e dove tutti noi siamo costantemente sollecitati a renderci utili o peggio utilizzabili, quanta saggezza potremmo acquisire dall’oziosa contemplazione dei suiseki, queste piccole pietre inutili, che invitano lo sguardo a perdersi sognante tra i loro dettagli.

Note

  1. Vincent T. Covello e Yuji Yoshimura, L’arte del suiseki, Edizioni SNEV, Milano 1994, p. 15. ↩︎
  2. Zhuang-zi, Adelphi, Milano 2022, p. 48. ↩︎

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Immagine: Yamagata-ishi, collezione Michele Savino


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