Pigri davanti al male

Di Michele Savino

Dalla mia parete pende un lavoro giapponese, di legno,
maschera di un cattivo demone, laccata d’oro.
Con senso partecipe vedo
le vene gonfie della fronte mostrare
quanto sia faticoso esser cattivi.

Bertolt Brecht

Ce lo insegna anche la natura tramite la dura legge della sopravvivenza del più forte: bisogna essere vigili e scaltri per cavarsela nella vita. Questa legge, applicata alla jungla del mondo del lavoro, conduce a una certa tacita legittimazione dell’astuzia e dell’inganno per raggiungere i propri obiettivi.

In questo panorama di competizione e prevaricazione sembra che i pigri e gli ingenui siano destinati a soccombere, forse troppo liberi e saggi per adattarsi alla volgarità dell’azione finalizzata; un’esistenza libera e sovranamente umana dovrebbe ambire, quando possibile, all’azione disinteressata, elevandosi dalla meschina sopravvivenza animale. Eppure tutt’oggi si insegna ai bambini ad essere furbi e ambiziosi, iniziando da quella palestra di rivalità organizzata che è la scuola, che gradualmente dovrà addestrarli alle future logiche lavorative: “la scuola seleziona, livello dopo livello, coloro che, nelle fasi precedenti del gioco, abbiano dato prova di non rappresentare un rischio eccessivo per l’ordine costituito”1.

Lo scolaro pigro rappresenta tuttora lo stereotipo dell’inetto e del somaro inadeguato, destinato a non assaporare mai i dolci frutti di una meritata carriera. In verità c’è una tacita lezione che solo la pigrizia può insegnarci: ciò che nelle nostre vite otteniamo o perdiamo è molto spesso immeritato e determinato dalla sorte, una variabile, questa, estranea alla disciplina scolastica. Fondandosi su una fallace corrispondenza tra l’impegno dedicato e il risultato ottenuto, la scuola è in parte responsabile delle svariate frustrazioni dei futuri adulti, che, magari, si troveranno ad assistere impotenti all’immeritata fortuna dell’asino della classe.

“Il successo, la prestazione e la competizione sono forme di sopravvivenza”2, più vicine alla logica della lotta animale che a quella dimensione celeste che l’uomo può riscoprire attraverso una vita oziosa e contemplativa.

Essere furbi è effettivamente stressante, impegnativo e non sempre ne vale la pena; a tal proposito risultano illuminanti le parole di Alessandro Pronzato:

Mi vanto di non appartenere al mondo dei furbi, ma a quello delle persone libere. L’ingenuità, infatti, è un’espressione di libertà. Secondo l’etimologia del termine, «ingenuo» vuol dire «nato da genitori liberi», e anche «degno di un uomo libero».

L’individuo ingenuo è uno che si è liberato da tutte le astuzie, dai calcoli furbastri, dai tatticismi, dagli ammiccamenti dei potenti, dagli arruffianamenti con i dotti, dalle concessioni alle mode del giorno, dalle collusioni con mammona, dagli opportunismi. Esce allo scoperto, disarmato, noncurante delle chiacchiere e dei giudizi altrui, lontano dagli intrighi. Con la pretesa assurda di dare un nome alle cose e alle persone, senza tener conto delle etichette già predisposte.

Prudente, senza essere pavido. Candido, senza essere stupido. Estraneo ai giochi di corridoio, impermeabile alle lusinghe, si muove con naturalezza, agisce con libertà.

Per caso, in questo mondo dominato dall’astuzia di molti, l’ingenuità non costituisce la forma più efficace di furbizia?3

Evidentemente l’ingenuità condivide con la pigrizia, oltre al potenziale di libertà e quieta sovversione, un ruolo tristemente subalterno nell’attuale società performativa e produttiva; eppure, se osassimo più spesso essere pigri ed ingenui, potremmo evitare di complicarci la vita con logoranti conflitti e inutili vendette. La forza della pigrizia consiste, appunto, nel rifiutare il conflitto a priori, nel resistere senza opporre resistenza.

Roland Barthes giunse alla conclusione che potremmo avere “il diritto di essere pigri davanti al male”4, di rifiutarci di reagire al male subìto con un male uguale o maggiore:

E se si andasse ancora più avanti la pigrizia potrebbe apparire come un’alta soluzione filosofica del male: non rispondere. Ma ancora una volta la società attuale sopporta molto difficilmente gli atteggiamenti neutri. La pigrizia le è quindi intollerabile, come se, in sostanza, fosse il male principale5.

Questo pensiero si fa portavoce di quella morale tolstoiana che tanto ispirò l’etica della non violenza di Gandhi; Tolstoj teorizzò la sua celebre dottrina della non resistenza al male in un testo del 1893 di forte matrice cristiana:

La questione della resistenza o della non-resistenza al male nacque allorquando avvenne la prima lotta fra gli uomini, perché ogni lotta non è altro che l’opposizione con la violenza a ciò che ogni combattente considera come un male. Ma prima del Cristo, gli uomini non si erano accorti che la resistenza con la violenza a ciò che ognuno considera come un male unicamente perché egli giudica in modo diverso del suo avversario, non è che uno dei mezzi per terminare la lotta e che ne esiste un altro: quello che consiste nel non opporsi al male con la violenza6.

Più che di pacifismo si potrebbe parlare della saggia riluttanza a rispondere all’aggressore con gli stessi mezzi; ed ecco che entra in gioco la pigrizia, con la sua passiva accettazione degli eventi e la disarmante tolleranza. Questo, in sintesi, il suo pigro insegnamento: non entrando in competizione con alcuno, nessuno al mondo potrà competere con te7.

Note

  1. Ivan Illich, Descolarizzare la società, Mimesis, Milano 2019, p. 57. ↩︎
  2. Byung-Chul Han, Vita contemplativa, Nottetempo, Milano 2023, p. 74. ↩︎
  3. Alessandro Pronzato, Alla ricerca delle virtù perdute, Gribaudi, Milano 1997, pp. 152-154. ↩︎
  4. Roland Barthes, La grana della voce, Einaudi, Torino 1986, p. 334 ↩︎
  5. Ivi. ↩︎
  6. Leone Tolstoj, Il regno di Dio è in voi, Fratelli Bocca, Roma 1894, pp. 206-207. ↩︎
  7. Questa massima di saggezza deriva dalla filosofia cinese antica, in particolare si trova espressa nei capitoli 22 e 66 del Daodejing. ↩︎

Immagine: maschera di demone della gelosia (hannya) per teatro nō, inizio secolo XVIII.


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