E un giorno ci ritroveremo nel mezzo del cammin di nostra vita a fare i conti col senso profondo dell’esistenza: non se siamo felici, se abbiamo goduto-succhiato-morso ogni qualvolta ce ne fosse stata occasione, ma il perché della vita, il puro e semplice senso del nascere-peregrinare-morire.
Tutti ci arrivano, chi prima chi dopo, chi non aspetta il mezzo del cammino perché prematuramente bruciato dall’ansia di risposte mai avute; chi, come quel filosofo greco, muore impazzito per non esser riuscito a scioglier un’aporia; anche chi sembra aver capito tutto della vita, chi vive facendo dell’espressione del proprio sé virtù: anche Jean Cocteau (1889-1963), poeta, scrittore, pittore, regista, drammaturgo, si ritrova, trentasettenne, a chiedersi perché – nel 1926, infatti, dopo la recente morte del giovane amante Raymond Radiguet, Cocteau libera la sua angoscia esistenziale in una Lettera a Jacques Maritain. Oppiomane, convinto con Baudelaire e Rimbaud dei benefici mentali e artistici dell’oppio, scopre la terribile faccia della dipendenza psicofisica, alimento d’angoscia, giacché
L’oppio non si prova, non ci si può divertire, lo si può solo sposare.
Ma la vita, l’arte, non volevano dire libertà?
Cosa c’è dietro l’arte e il bisogno artistico? dietro a tutta quest’energia vitale che brama spazio sulla terra? forse quello che gli altri chiamano Dio? Durante la disintossicazione dall’oppio Cocteau scorge la via della fede, non la fede, ma la tentazione d’abbandonarsi a qualcosa che possa dare un senso, più della droga e più dell’arte, all’esistere.
La visita di un missionario a casa dell’amico filosofo Jacques Maritain, al quale è dedicata, più che diretta, la sua “lettera sulla fede”, gli apre un mondo nuovo:
Chiedevo grazia. Era così semplice chiedere La Grazia. Come quei nizzardi le cui persiane si trovano intrappolate nelle grosse lettere di una réclame, abitavo in Dio e non ero mai uscito a vedere la mia finestra da fuori.
La testimonianza della fede tocca in lui corde che non avevano mai vibrato, svela sentieri imprevedibili e fa brillare in cielo stelle che sarebbero potute morire senza che nessuno se ne fosse mai accorto. Tuttavia l’abbandono non avvenne. E se Dio non fosse altro che amore? In tal caso, considerato che «La poesia è un congegno che fabbrica amore», non basterebbe che questa. I dubbi sono troppi. D’altronde
Dal momento che una medicina [l’oppio] agendo sul gran simpatico elimina il dolore morale e lo trasfigura al punto da renderlo dolce, vuol dire che non esiste alcun dolore morale, e che questo famoso dolore morale altro non è che dolore fisico.
E se non esiste dolore morale, se alla fine il nostro ansimare è gioco chimico soltanto, nemmeno Dio, il suo alito, la sua idea, esisteranno. Con l’oppio – perlomeno – si elimina la sofferenza superflua:
[…] Perché è bello soffrire? Solo i poeti mediocri traggono alimento dalla sofferenza; i grandi producono nella serenità.
Cocteau arriva perfino a paragonare l’oppio alla fede religiosa:
Da noi questa droga casta è considerata un crimine, ma la verità è invece che sviluppa le qualità evangeliche dell’essere. Potrebbe riempirci artificialmente di quelle beatitudini che innalzano il monaco e aiutarci a vincere i sensi e allora diverrebbe il preambolo di una vera elevazione, un trait d’union tra una vita materiale e una spirituale.
E dunque perché farsi tentare dalla fede? Lo si è già detto: l’oppio logora, assorbe completamente. E la fede invece no? È diverso.
Quello di Cocteau è un esercizio spirituale che s’insinua negli oceani della spiritualità religiosa senza tuttavia saper salpare per l’incognito. Egli si apre alla fede, ma non crede, non può farlo perché a credere non s’impara: non è sforzo ma tuffo cieco, non comprensione ma vibrante tensione. Sebbene l’amico Max Jacob sostenga che «L’ostia de[bba] essere presa come un’aspirina.», la vita non è un’influenza. Meglio riconoscere i propri limiti, se di limiti si può parlare, che scimmiottare un legame con l’eterno. Per non parlare di quanto spirito ci sia al di fuori della fede religiosa: l’arte, oltre ad essere autentico atto di fede, di una fede che evidentemente ha a che fare con concezioni altre del vivere, è una delle più grandi manifestazione dello spirito umano.
Razionalmente Cocteau riconosce il valore essenziale della creazione artistica – il senso della sua vita –, e di conseguenza anche la sua sublimazione: la creazione divina dell’universo. È soltanto questo, e il suo sfrenato amore per lo scandalo, a fargli dire:
L’arte per l’arte, l’arte per la massa, sono ugualmente assurde. Propongo l’arte per Dio.
E così «Poco a poco la bellezza diventerà realtà, i capolavori azioni del cuore e santità il genio». Sì, «L’arte è religiosità», perché è necessario giustificarsi dinanzi al vuoto semantico dell’esistenza umana.
Jean Cocteau non si fece angelo, ma rimase uno «Zotico del cielo» intento a cercare, a forza di spirito, la propria dimensione.
Maritain mi trovò con il passo pesante. Voleva aprirmi una strada. Mi ha aperto la sua. Io non possedevo, ahimè, per percorrerla al suo lato, né le ali degli angeli, né la considerevole macchina spirituale di quell’anima travestita da corpo. Privato delle mie gambe, non mi restava che fatica. Evasi (La Difficulté d’être, 1947)
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