Di Michele Savino
La grande abilità assomiglia alla mancanza di abilità.
Zhuang-zi
Il celebre scrittore giapponese Kawabata Yasunari, nella conferenza di accettazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1968, citò una poesia del monaco buddhista Ryokan, quale simbolo ed esempio dell’essenza stessa del Giappone:
Come ricordo,
voglio lasciare
i fiori della primavera,
il canto del cuculo d’estate,
i colori dell’autunno.1
Questa poesia, scritta da Ryokan nei giorni che ne precedettero la morte, è carica di profonda umiltà e contemporaneamente di un’illuminante saggezza, che porta il poeta ad abbandonarsi fiducioso all’impermanenza ciclica della natura:
Ryokan, che si scrollò di dosso la volgarità moderna del suo tempo, che era immerso nell’eleganza dei secoli passati, e la cui poesia e calligrafia sono molto ammirate oggi in Giappone, visse nello spirito di queste poesie, un vagabondo lungo i sentieri di campagna, una capanna d’erba per ripararsi, stracci per vestiti, contadini con cui parlare. La profondità della religione e della letteratura non era, per lui, nell’astruso. Piuttosto, perseguì la letteratura e la fede nello spirito benigno riassunto nella frase buddhista “un volto sorridente e parole gentili”. Nella sua ultima poesia non ha offerto nulla in eredità. Sperava solo che dopo la sua morte la natura sarebbe rimasta bella. Questo potrebbe essere il suo lascito. Nella poesia si avvertono le emozioni del vecchio Giappone, e anche il cuore di una fede religiosa.2
La figura di Ryokan, molto nota e quasi leggendaria in Giappone, è ancora poco conosciuta in occidente e potrebbe rappresentare una vera e propria medicina spirituale per le nostre esistenze impazienti e frenetiche, perennemente orientate all’affannosa rincorsa di sfuggenti chimere.
Yamamoto Eizo nasce nel 1758 in una colta e agiata famiglia appartenente al rango dei samurai e, essendo il primogenito, è predestinato a succedere al padre come capo del villaggio:
Eizo è destinato a prendere il posto del padre tra le figure eminenti del villaggio, ma si sente inadatto al compito. Come mai? Perché Eizo è un uomo buono, guidato dalla compassione per tutti gli uomini, incapace di scaltrezza e di rancore. Ma secondo l’etica di allora – che è la stessa di oggi – chi è buono è un cretino, chi non è furbo non diventerà mai potente. A diciotto anni, nel 1775, Eizo lascia il mondo per ritirarsi nel tempio Kosho.3
Da quel momento Eizo diventa Ryokan, il cui nome significa “buono e magnanimo”, affiancato al soprannome Taigu, letteralmente “stupidone”, attribuitogli affettuosamente dal popolo.
Abitualmente i Giapponesi conferiscono alla figura del monaco zen bonari appellativi che ne evidenziano l’apparente stoltezza agli occhi del mondo; un pensiero simile, che lega la stupidità alla saggezza illuminata, era già presente nel taoismo cinese delle origini, secondo cui “lo stato di stupidità provoca l’esperienza del Tao”4.
Ryokan è l’idiota illuminato, il grande folle incompreso dal mondo perché elevatosi a quel punto impossibile dove gli opposti apparentemente coincidono, dove la sapienza può solamente sconfinare per eccedenza nell’idiozia, ma un’idiozia assoluta e suprema, stato di grazia concesso a colui per il quale la conoscenza è divenuta un territorio da attraversare e non più una condizione o una meta da raggiungere. Un territorio che, una volta solcato, può solamente essere contemplato dall’alto dell’idiozia, metamorfosi estrema del pensiero, armonia universale:
La mia stupida ostinazione non ha eguali;
erbe e piante sono i miei vicini.
Non so più distinguere il vero dal falso.
Rido di me stesso, sentendomi invecchiato.
A piedi nudi, attraverso con calma il torrente;
con la bisaccia, cammino al sole primaverile.
Contento di poco, conduco la mia vita.
Non provo alcun rancore verso il mondo.5
Troppo spesso ci dimentichiamo che, forse, chi apparentemente sembra impacciato nel mondo non lo è per inadeguatezza o incapacità, bensì per un eccesso di lucidità disorientante, una speciale lente che contemporaneamente rivela e confonde. La profondità del pensiero sfocia nell’idiozia e la superficie, osservata dal profondo, o meglio profondamente dall’interno, risulta ormai deformata, irriconoscibile, banalmente incomprensibile. L’idiozia è un nuovo livello di comprensione della realtà, non più attraverso le modalità di pensiero logico-razionali, bensì tramite una compenetrazione empatica col reale, una pacifica accettazione del corso spontaneo degli eventi e dell’impermanenza dei fenomeni:
Per tante cose
non ti affannare;
questo mondo
è solo l’ombra
di una palla.6
Spesso dimentichiamo, anche, che ogni azione disinteressata è manifestazione di saggezza, così come la consapevole accettazione del presente è espressione dell’autentica realizzazione interiore. Tutti possiamo essere scaltri e competitivi, ma per diventare, o ritornare, liberi ed ingenui occorrono sovrumano impegno, introspezione, determinazione e, probabilmente, un aiuto divino:
La vita di Ryokan, pur perfettamente orientale, ha analogie non solo con San Francesco, ma anche con i ‘monaci folli’ che costellano i romanzi russi dell’Ottocento. Ryokan è proprio come l’idiota eternato da Fëdor Dostoevskij, orientato al bello e al buono, per questo deriso dal mondo.7
La purezza di Ryokan è altresì espressione della severa disciplina della scuola Soto del buddhismo Zen a cui il monaco apparteneva, secondo la quale la meditazione (zazen) è essa stessa illuminazione (satori) e non un mezzo per raggiungerla; ne consegue che ogni essere è già potenzialmente illuminato e che “ogni aspetto della vita può diventare sorgente di illuminazione”8.
Lo Zen educa a svelare l’assoluto nel quotidiano, fino a identificare l’impermanenza dei fenomeni con l’illuminazione stessa; da qui ha origine la fondamentale importanza attribuita al momento presente:
Ogni attimo è in se stesso e per se stesso. Esiste solo il presente, momento dopo momento. Passato e futuro sono dimensioni illusorie della mente. Solo l’«ora» è assoluto. L’illuminazione è racchiusa in quell’attimo.9
L’illuminazione risiede nella quotidianità del presente, o meglio nella pacata accettazione dell’impermanenza (assoluta) del presente; alla luce di ciò è possibile comprendere meglio la gioiosa gratitudine con cui Ryokan affronta le più semplici azioni quotidiane, come mendicare il riso con la scodella o giocare a palla con i bambini:
Tutti i giorni, senza eccezione,
vado a giocare coi bambini.
Porto due o tre palle nelle mie tasche;
sono un uomo inutile, ma felice,
in questa pace primaverile.10
La saggezza di Ryokan è intimamente radicata nella vita ed è totalmente estranea a qualsivoglia seriosità erudita; il maestro non disdegna l’ironia e, come ogni autentico seguace dello Zen, pensa che la risata possa rivelare una dimensione più profonda del reale, essendo una forma immediata e intuitiva di comprensione, un distanziamento critico dalla convenzionalità delle nostre abituali convinzioni:
È facile dire
con una parola
di aver la diarrea;
ma il dolore
è insopportabile.11
La risata illumina, smaschera liberamente, scuote la mente. La risata è illuminazione.
Note
- Daigu Ryokan, Poesie di Ryokan, La Vita Felice, Milano 2012, p. 90. ↩︎
- Kawabata Yasunari, Nobel Lecture, https://www.nobelprize.org/prizes/literature/1968/kawabata/lecture/ ↩︎
- Federico Scardanelli, Sia lode a Ryokan, il poeta pazzo, in: Ryokan, Storie e parabole Zen, Edizioni Theoria, Ariccia 2018, p. VIII. ↩︎
- Zhuang-zi, Adelphi, Milano 2019, p. 128. ↩︎
- Daigu Ryokan, Poesie di Ryokan, op. cit., p. 61. ↩︎
- Ivi, pp. 109-110. ↩︎
- Federico Scardanelli, op. cit., p. XII. ↩︎
- Massimo Raveri, Il pensiero giapponese classico, Einaudi, Torino 2014, p. 524. ↩︎
- Ivi, p. 528. ↩︎
- Daigu Ryokan, Poesie di Ryokan, op. cit., p. 64. ↩︎
- Ivi, p. 136. ↩︎
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Immagine: Kanzan e Jittoku di Sesshū Tōyō, Giappone, periodo Muromachi, XV secolo.