Filosofia di Temptation Island

C’è qualcosa di diabolico, e quindi di geniale, in Temptation Island, il reality show più seguito dagli italiani, anche da quelli che sulla carta dovrebbero preferire i racconti sulle piramidi sulla tv di stato. Il famoso slogan ripetuto ogni quaranta secondi dal presentatore, “un viaggio nei sentimenti”, dovrebbe essere letto come “il massacro dei sentimenti”, perché quasi impossibile è uscire puliti da questo gioco perverso in cui, come mostrano con ironia i Jackal, si prendono coppie in crisi, le si separano e le si buttano nelle braccia di dei e dee scesi in terra (e molto probabilmente incentivati a fingere interesse anche quando questo non esiste).

Nessuno ne esce pulito, perché anche il non partecipare, quindi il non cedere alle tentazioni, è paradossalmente vista come una mancanza di rispetto nei confronti del partner che pretende di vedere la sua metà in atteggiamenti equivoci per capire quali sensazioni suscitano in lui o lei: “non ti sei messo in gioco”, “allora che siam venuti a fare qua?”, “non hai le pa**e”. E di conseguenza farsi una storiella con un altro o un’altra diventa: “io almeno ho fatto il mio percorso”, “questa persona mi ha aiutato a capire determinate cose”, “in realtà quei limoni io li volevo da te”. Ma certamente.

Nessuna idea del significato di tradimento, nessun tentativo di provare a capire cosa significhi. Se la relazione “extraconiugale” ha una valenza prettamente fisica, basta dire: “è solo un’attrazione, mai trascesa a livello mentale”, e viceversa se ne ha una mentale: “è solo un’affinità mentale, mai trascesa a livello fisico” (ovviamente usando altre parole in luogo di “trascesa”). Hanno ragione tutti e hanno tutti torto. Poi si può stare avvinghiati per ore, baciarsi dappertutto, ma se non sfiori le labbra con le labbra non vale niente. Quante cose si imparano guardando questo programma, ecco spiegata la riprogrammazione del palinsesto della tv di stato.

Perverso anche pensare che il mutamento (lo “schiarirsi”) dei sentimenti debba passare attraverso una narrazione fatta su misura da altri (gli autori del programma) apposta per stimolare uragani interiori. La scelta di mostrare, di un’intera giornata, il montaggio di cinque minuti dei dialoghi e dei comportamenti di una persona lascia spazio a qualsiasi tipo di manipolazione. Ma, giustamente, sono le regole del programma, che non è fatto per le coppie partecipanti, ma per gli spettatori. Musiche da colossal alternate a tutto il repertorio della musica leggera romantica della tradizione italiana (con qualche inserto internazionale a ricordare la “voglia di estate e spensieratezza”), inquadrature assassine, montaggi degni delle grandi soap televisive che hanno fatto innamorare milioni di persone annoiate dalle loro vite monotone. Temptation Island, meglio della tragedia greca, si pone come programma catartico, nel quale vivere attraverso i protagonisti tutto ciò che non possiamo e non abbiamo il coraggio di confessare. E cioè che siamo tutti, ineluttabilmente, dei b******i egoisti.

In Temptation Island l’egoismo emerge come il motore principale delle azioni umane. Le decisioni dei partecipanti sono spesso guidate dal desiderio di soddisfare bisogni personali, sia emotivi che fisici, a scapito della fedeltà e del rispetto per l’altro. La verità fa sempre male: anche le relazioni più solide, e figuriamoci quelle di ragazzi e ragazze (relazionalmente, più che sentimentalmente, parlando) “alle prime armi” (pur essendoci anche dei quarantenni), possono essere vulnerabili all’egoismo latente. Ma questo perché è l’essere umano a essere fondamentalmente egoista, interessato in primo luogo alla propria autoconservazione e al soddisfacimento del proprio piacere. Nel programma si parla sì di “amore”, ma nell’unica accezione di “essere amati” – se poi si è amati “come voglio io”, si può anche ricambiare.

Il buon Rousseau credeva che l’essere umano fosse buono per natura ma corrotto dalla società. Tuttavia, basta prendere un esperimento come Temptation Island – mondo sospeso più simile a uno stato di natura che a una società vera e propria – per vedere come l’essere lasciati a se stessi senza restrizioni sociali (e con le telecamere sempre accese che invece di inibire, trattandosi di spettacolo che può rendere famosi – uno dei grandi valori della nostra epoca, trionfo della “società dello spettacolo” di debordiana memoria – tira fuori la nostra parte istrionica), conduca a comportamenti egoistici e autoindulgenti, confermando in parte la visione più pessimistica di Hobbes, per il quale gli esseri umani agirebbero in modo intrinsecamente egoistico per garantirsi la sopravvivenza e il soddisfacimento dei propri desideri.

s.


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