Di Roberta Denti
L’incanto nascosto dietro, e dentro, le copertine
Nel 2014, su quell’isola di fuoco e vento che è Stromboli, la libraia di allora – Maria Claudia, che oggi è molto più che una collega, è un’amica e una complice – mi mise tra le mani un libro che sarebbe diventato la mia coperta di Linus letteraria: Piccoli Amori di Franziska Zu Reventlow (1912). Da sempre penso che i libri siano tappeti volanti per la fantasia, ma anche portali spazio-temporali che spalancano passaggi verso altri mondi e altri tempi. Quel romanzo mi aprì il primo di tanti varchi.
Primavera 2025: io, neo-libraia della leggendaria Libreria Sull’Isola, salgo su un aliscafo con la frenesia di chi ha un appuntamento con il destino. La rotta è Patti, vicino Milazzo, dove il mio compare libraio Teodoro – spirito affine e dispensatore di consigli preziosi – custodisce nel suo Capitolo 18 scaffali di sorprese. La missione? Arraffare titoli insoliti, stravaganti, capaci di inaugurare un nuovo corso letterario per Stromboli.
Tra le copertine che mi seducono con le loro promesse, una mi fulmina. Psichedelica, vibrante: il disegno di un uomo e una donna che si abbracciano nudi, in un abbandono quasi sacro. Il titolo è MONTE VERITÀ – 1900: Il Primo Sogno di una Vita Alternativa, di Stefan Bollmann. Lo “rubo” dagli scaffali per portarlo nella mia dimora celeste, Casa Celestina, senza immaginare che lì, tra le sue pagine, avrei ritrovato un volto amato: Franziska Zu Reventlow, la Contessa Cosmica. Non sapevo ancora che lei, la mia icona letteraria, aveva bighellonato, amato e forse danzato proprio su quel Monte Verità che, da lì a pochi mesi, avrei visitato di persona.

Per me, mettere piede su quel monte – un tempo tempio utopico di anarchici, naturisti e visionari – è stato come entrare in un romanzo già noto: un luogo dove le pagine si fanno carne e i fantasmi diventano compagni di viaggio. Il libro di Bollmann, alla fine, è partito per un’altra avventura, acquistato da una bellissima amica vegetariana e anarchica che vive in una comune ad Alicudi. Ma Piccoli Amori no: continua a seguirmi ovunque, come un amuleto, un modello, la stella polare del memoir erotico che un giorno scriverò.
Franziska mi guardava dalle pagine come una compagna di viaggio che conosce le scorciatoie per l’altrove. Facevamo continuamente feste di addio, perché ogni giorno poteva essere l’ultimo – mi sussurrava, e sull’isola le parole prendevano la forma di danze improvvise, di addii che non erano mai davvero addii.
Lei desiderava senza complicazioni, alcuni uomini vogliono salvarti, altri sposarti; io non ci casco, li desidero tutti – e in quella frase, che era più di un aforisma, sentivo il manifesto di una vita intera, vissuta al di là delle gabbie. Non c’era moralismo né scuse:
Ach, wie ist es gut, wenn einem der moralische Halt so gänzlich fehlt – “quanto è liberatorio non avere alcun sostegno morale”,
annotava nel suo diario, e io lo sentivo vero, necessario, soprattutto su un’isola che ti obbliga a guardare in faccia te stessa.
A Monte Verità, la sua voce risuonava come un’eco tra i castagni:
La libertà è un fiore che si deve cogliere con le mani sporche di terra.
Lì, dove anarchici e naturisti avevano sognato una vita nuova, il suo spirito mi sembrava ancora presente, un soffio che rovescia le cose: il principio della mia vita è che tutto va alla rovescia.
E così, tra Stromboli e Ascona, tra le pagine di Piccoli Amori e il sogno utopico raccontato da Bollmann, le parole di Franziska sono diventate mie. Forse è questo che fanno i libri: ti regalano altre vite da abitare, altri corpi da desiderare, altre follie da osare.
Se potessi vivere senza lavorare, sarei l’essere più felice sotto il sole,
scriveva lei. E io, sotto questo sole che brucia e consola, penso che forse ci sto provando anche io.
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Monte Verità: il sogno anarchico ai piedi delle Alpi
C’era una volta, in cima a una collina baciata dal sole sopra il lago Maggiore, un gruppo di anime inquiete e ribelli alla ricerca di un rifugio dorato (e un po’ folle). Erano artisti, visionari, anarchici, filosofi, liberi pensatori, amanti della natura, fuggiti dalla civiltà industriale per inseguire un’utopia: vivere in armonia con sé stessi, con gli altri e con la terra. Quel luogo esiste ancora, e si chiama Monte Verità. Un nome che sembra una provocazione, una poesia, un manifesto. Un nome che già dice tutto: una montagna in cerca della verità, o meglio, un esperimento sociale, artistico e spirituale che ha sfidato le convenzioni del suo tempo.
Siamo ad Ascona, nel Canton Ticino, all’inizio del Novecento. A fondare questa comunità alternativa anarchica e naturista furono Henri Oedenkoven, ricco industriale belga vegetariano, e la pianista tedesca Ida Hofmann. Insieme, nel 1900, acquistarono una collina che allora si chiamava “Monte Monescia” e la ribattezzarono con un nome che suona ancora oggi come un’eco rivoluzionaria: la montagna della verità. Il loro sogno? Vivere in armonia con la natura, lontani dalle costrizioni borghesi, dai corsetti, dalla carne e dalla proprietà privata. Il loro motto era semplice e radicale: ritorno alla natura.
Qui si praticava il nudismo, il vegetarianesimo, il naturismo, la danza libera, la psicoanalisi, l’amore libero. Si dormiva in capanne immerse nel verde, si coltivava la terra a mani nude e si discuteva di Nietzsche, Freud e Buddha tra una tisana e un bagno di sole. Si meditava, si curava il corpo con bagni d’aria e di luce. Niente alcol, niente carne, niente convenzioni sociali. Un Eden svizzero, certo eccentrico, ma animato da una sincera ricerca di autenticità.
A Monte Verità non c’erano padroni né padri. Solo spiriti in cerca.
Il luogo divenne presto un magnete per artisti, scrittori, anarchici e riformatori sociali. Tra gli ospiti e abitanti temporanei si contarono nomi come Carl Gustav Jung, Hermann Hesse, Isadora Duncan, Rudolf Steiner, Otto Gross, Else Lasker-Schüler e persino Erich Maria Remarque. Monte Verità fu un crocevia sorprendente di avanguardie culturali, misticismo e rivoluzione interiore.
Tra i tanti che vi passarono – a volte per giorni, a volte per mesi – c’era il fior fiore del pensiero e della controcultura europea.
Hermann Hesse veniva spesso a passeggiare, pare anche a chiappe all’aria, nei boschi del monte, tormentato e ispirato come i suoi personaggi. Carl Gustav Jung studiava i nuovi riti e le forme di spiritualità che lì prendevano corpo. Isadora Duncan danzava nuda sull’erba al ritmo del vento. Rudolf Steiner, il padre dell’antroposofia, teneva lezioni tra i pini. E poi ci fu Erich Mühsam, poeta anarchico e martire del nazismo, che la descrisse come «l’ultimo rifugio della libertà».
Ma tra tutti, una figura brilla con luce propria: Franziska zu Reventlow, la scrittrice e nobildonna bohémienne conosciuta come la Contessa Cosmica. Spirito libero, sensuale, imprevedibile, venne ad Ascona nel 1909 e subito capì l’ambiguità del sogno utopico. Scrisse:
Qui non ci sono che profeti e pazzi.
Amava Monte Verità, ma la considerava anche una caricatura della sua stessa idea di libertà. Troppo rigore anche tra chi predicava la liberazione. Franziska era fatta per l’eccesso, non per la regola. Di lei disse Mühsam:
Era l’essere più libero che io abbia mai incontrato.
Non mancavano gli amori, gli scandali, le fughe notturne. Il monte pullulava di passione e di ideali, ma anche di rivalità, rotture, malumori. Non era un Eden: era un esperimento umano. E come tutti gli esperimenti veri, non prometteva felicità, ma autenticità.
E come spesso accade con le utopie, anche questa iniziò a incrinarsi. Le tensioni interne, i dissidi ideologici, e le trasformazioni del mondo esterno finirono per snaturarne lo spirito originale. Negli anni ’20 il monte fu venduto a un banchiere tedesco, Eduard von der Heydt, che lo trasformò in un centro culturale più elitario, frequentato da intellettuali, collezionisti d’arte e ospiti illustri. La libertà originale cedette il passo a una raffinata mondanità, ma il fascino del luogo restò intatto.
Monte Verità cambiò volto: diventò prima una scuola di danza, poi un albergo in stile Bauhaus (opera dell’architetto Emil Fahrenkamp), e infine fu acquistato dal ballerino e mecenate Harald Szeemann. Ma lo spirito originario non è mai scomparso. Ancora oggi, salendo sul monte, si sente un’energia diversa. Qualcosa nell’aria ricorda che lì, un tempo, si provò davvero a vivere secondo verità.
Oggi Monte Verità è un centro culturale e congressuale, immerso in un parco che profuma ancora di sogni perduti. Un luogo che continua ad attrarre chi cerca un’alternativa, chi ama pensare fuori dagli schemi. Una memoria vivente di quando, tra capanne e camminate a piedi nudi, si sognava davvero un mondo diverso.

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Il mio pomeriggio erotico tra fantasmi e visioni
Stanza 135, Villa Semiramis. La finestra è un varco, non una cornice: Monte Verità non è una collina, è un corpo che respira. Resina, vento, erbe selvatiche: ogni respiro un richiamo, ogni fruscio un segreto.
Mi stendo sul letto, lenzuola bianche come vesti di vestali, ma io nuda, pelle esposta, carne che vibra. Mi piace pensare che qui, un secolo fa, le convenzioni si scioglievano come cera sotto il sole, che ogni carezza fosse insieme bestemmia e preghiera.
Chiudo gli occhi. Il tempo si frantuma. Ora sono qui, ora altrove. Otto Gross predica la libertà ma annega nelle sue ossessioni. Lo vedo: agitato, divorato da amanti e gelosie, il veleno di Sophie Benz che scivola come una promessa amara. Franziska, così crudele con sé stessa, scriveva di amori che non salvano ma consumano. Io sento quella fiamma dentro: non per distruggere, ma per rinascere.
Il letto si fa altare e campo di battaglia. Ogni respiro è una sfida. Non è solo erotismo: è riappropriazione, è viaggio. Il mio corpo è la mappa, la mia pelle la scrittura.
Nel silenzio denso, Monte Verità mi accompagna con le sue ombre antiche e le sue follie luminose. E mentre il mondo fuori continua il suo rumore assordante, io scelgo di ascoltare il canto delle cose vere, quelle che tremano sotto la superficie. Grido: Harald. Ma non è un nome. È un codice. Un portale. La chiave che apre la porta tra il 1900 e adesso, tra la mia pelle e il mito. È Monte Verità che mi attraversa, che entra in me come un amante, un dio, un sogno.
Le mie dita, possedute dal suo spirito, si muovono rapide, febbrili, strumenti del suo desiderio. Il suo respiro, che è il mio, mi piega il corpo e mi dilata l’anima. Fuori, il lago ribolle sotto un vento improvviso; dentro, io sono magma.
Quando l’onda arriva, devastante e sacra, urlo ancora il suo nome. Harald. Non è un orgasmo: è un’esplosione mistica, un’iniziazione carnale. L’estasi è stata preghiera, la carne oracolo. Sono stata posseduta e liberata.
Quando mi sollevo, il sudore sa di miele e di eternità. Sono esausta e piena, vuota e infinita. Io, archivio segreto. Lui, iniziazione carnale. Monte Verità resta lì fuori, silenzioso, testimone di un orgasmo che è stato più che piacere: un sacramento pagano.
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Le Mammelle della Verità di Casa Anatta
La mattina dopo l’estasi, sono salita a Casa Anatta. Il corpo ancora caldo di riti privati, i pensieri spalancati come finestre al vento. Lì, nella dimora sospesa tra bosco e cielo, mi hanno accolto Le Mammelle della Verità: Harald Szeemann, nel 1978, ha fatto del Monte Verità una divinità, Artemide di Efeso rinata, una dea a più mammelle che allatta i suoi figli utopisti. Le ho viste, quelle mammelle concettuali, scolpite in quattro seni pulsanti: Anarchia, fuoco di ribellione; Riforma del corpo e dello spirito, dai teosofi danzanti ai corpi nudi come vangeli viventi; Psicoanalisi, la rivoluzione sessuale prima che fosse parola d’ordine, il matriarcato che ribolle sotto la pelle; Arte e letteratura, il verbo che si fa gesto, immagine, avanguardia, visione.
Szeemann non racconta, possiede. Non spiega, evoca. Ha fatto del Monte un Museo delle ossessioni, così lo chiamava: non un altare polveroso ma un organismo vivo, un archivio che pulsa. Vetrine come reliquiari: lettere, fotografie, diagrammi, vestiti, i fantasmi di chi ha osato. Tutto convive, il sacro e il fallito, il sublime e il ridicolo. La sua mostra non celebra, scompone: mette a nudo le tensioni tra l’utopia e il naufragio, tra il sogno e il fango, come se ogni ideologia fosse una pelle che prima o poi si lacera.
Camminando tra le sale, sentivo Harald accanto, il curatore-alchimista che raccoglie frammenti e li trasforma in mappa esoterica. Un manifesto, sì, ma anche un incantesimo: il Monte come tempio di una nuova religione postindustriale, dove il culto non è Dio ma la vita stessa, reinventata, danzata, analizzata, scritta. Ogni reperto sembrava parlare: resisti, brucia, trasforma.
Casa Anatta non è un museo, è un ventre. Ho lasciato che le sue mammelle mi nutrissero. Anarchia come vino, psicoanalisi come linfa, danza come ossigeno. Ho compreso che Szeemann non ha chiuso il Monte in una teca: lo ha fatto respirare, trasformandolo in un rito permanente.
Sono uscita dal museo più leggera e più densa, con il sospetto che quelle mammelle non siano solo metafora. Che Monte Verità, ancora oggi, continui ad allattarci, figli erranti in cerca di una libertà che sappia di miele e terra.

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I BALABIOTT
I balabiòtt — dal dialetto lombardo “balla biot”, letteralmente “chi balla nudo” – erano gli idealisti, nudisti, vegetariani e teosofi che all’inizio del Novecento abitavano Monte Verità. Ma per i paesani erano solo: ‘Quelli che ballano nudi e non lavorano mai’. Erano come i primi “hippy” d’inizio Novecento: vivevano liberi, vibravano di spiritualità e provocazione, e per i locali rappresentavano un mix tra pochi freni inibitori e spiriti un po’ stravaganti. In loro onore e memoria, sono andata biotta per i boschi di Monte Verità e mi sono pure fatta immortalare dal mio amante svizzero con le ciapett al vento, in stile Herman Hesse. Segue reperto fotografico.

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Immagine di copertina: fotografia raffigurante la danzaterapeuta espressionista tedesca Mary Wigman al Monte Verità