Giovedì scorso sono finito al Monk di Roma per vedere i Karate. Non perché fossi un grande fan (non si può conoscere tutto), ma perché il direttore responsabile di Arghía mi ha detto: “Oh, ho un biglietto in più.” E mica mi faccio pregare. C’è solo un dettaglio: il biglietto era intestato a un certo Manfredi Cernobio. Giuro. Che nome è? Sembra il commercialista dei Goblin. Comunque, per tutta la serata mi sono presentato come “Manfredi Cernobio, per gli amici Man”, e ho salutato gente a caso con l’aria di chi sa il fatto suo. Nessuno ha protestato. Roma è abituata a tutto.
Ore 21:40 in punto – che mica sono più dei giovanotti – sale sul palco il power trio con le sembianze di tre fratelli monozigoti: t-shirt nere, teste lucide, zero fronzoli. Sotto una luce giallognola, sembravano usciti da una dimensione parallela dove il jazzcore incontra un centro sociale minimalista. E via, si parte.
Il concerto è stato un bel viaggio nel tempo – almeno così mi ha detto il direttore responsabile (che poi è andato a cercarsi i titoli delle canzoni su Google per riferirmeli), praticamente un tributo ai fan della prima ora: da “There Are Ghosts” a “Gasoline”, “New Martini”, “Water”, “The Same Stars”, fino a un paio di tracce dall’ultimo disco Make It Fit, tipo “Liminal”, “Defendants” e “Fall to Grace”. Non hanno esagerato col nuovo, anche perché non è che abbiano sfornato tonnellate di roba negli ultimi vent’anni. Giustamente: meglio poco e buono.

Piccolo momento da standing ovation morale: il cantante Geoff Farina, con l’eleganza passivo-aggressiva di un professore stanco, si è scagliato contro chi usava il telefono per riprendere, coprendo la visuale a quelli dietro. Il pubblico ha reagito con un boato di approvazione tipo “finalmente qualcuno lo dice”. Più avanti, però, una ragazza davanti a noi si è girata furiosa perché il direttore responsabile, preso dalla nostalgia, commentava ogni brano con l’entusiasmo di chi è tornato al 1993. Io, nel dubbio, ho finto di essere ancora Manfredi Cernobio e ho fatto finta di non conoscerlo.
Ad ogni modo Geoff Farina è un mostro di precisione e atmosfera. La sua tecnica chitarristica – fatta di arpeggi fluidi, fingerpicking jazzato, loop mentali e improvvise impennate emotive – mi ha colpito al punto che in certi momenti ho pensato: “Oh, ma questo è un gilmuriano!”. Non per lo stile, che è più ruvido, ma per la capacità di tirarti fuori un’emozione potente da due note messe nel punto giusto. Un vero chirurgo delle corde.
In sintesi: grandi suoni, pubblico coinvolto, poche chiacchiere inutili (a parte quelle del direttore responsabile e i suoi amici in solluchero), nessuno strumento sfasciato e tanta sostanza. Per non conoscere bene i Karate, mi sono divertito parecchio. E comunque, da oggi, se incontrate Manfredi Cernobio, stringetegli la mano. Sa scegliere bene i concerti.

s.
P.S. del direttore responsabile: “Con sommo scuorno dell’amico Dan, i nostri non hanno suonato – – – (nota ai più come “trattino, trattino, trattino”). Il dir responsabile, cioè io, ha goduto dell’omissione perché l’amico Dan ha sminuito in più occasioni la grandezza chitarristica di Farina”.