Di Michele Savino
L’essere “orientale” di Penna è, in primo luogo,
la sua irriducibilità a ogni forma di volontarismo,
di dominio della mente sul mondo.
Paolo Lagazzi
Natalia Ginzburg conobbe Sandro Penna a Roma nel 1945, quando ella lavorava nella casa editrice Einaudi; a distanza di anni la Ginzburg ebbe modo di delineare un perspicace ritratto del poeta, cogliendone acutamente la singolarità esistenziale:
Vivendo egli fuori dalle leggi che il tempo determina e impone, e non conoscendo egli nel suo mondo né classi sociali, né impalcature ideologiche, e mantenendo e avendo mantenuto sempre una piena e limpida indifferenza nei confronti del potere, e intrattenendo con i vivi e con i morti, con i potenti e con gli inermi, un rapporto di assoluta semplicità e parità, egli è uno fra gli esseri umani più liberi che siano mai esistiti. Mai si è lasciato dominare da un’idea altrui; mai è diventato servo di un’idea che circolasse all’intorno; mai si è piegato o rattrappito a essere o a pensare secondo un modello fornitogli da altri o fluttuante nell’aria.1
Per molti aspetti, tra cui l’esistenza ritirata, la povertà e una sintonia panica con l’insondabile armonia naturale, si potrebbe vedere in Penna la figura di un moderno saggio taoista e persino le sue poesie, che lui stesso dichiarava essere scaturite spontaneamente, sembrano accordarsi a un processo creativo tipicamente orientale, dove l’intenzionalità umana viene detronizzata da un’apparente pigrizia contemplativa, orientata a non agire, a porsi in ascolto dell’armonia universale, a seguire lo spontaneo flusso degli eventi. Come disse Penna stesso in un’intervista del 1963:
Non ho sistemi di lavoro. Non ho mai idee e neppure la voglia di far nulla. Le poesie vengono per forza, spesso non ho con me né carta né matita e scrivo su pezzi di giornale, su ciò che mi capita. Scrivo mio malgrado: ho sempre pensato di non voler essere poeta.2
Penna considera centrale, nel processo di creazione poetica, una precondizione di ingenuità e purezza dell’animo del poeta, che gli consenta di accogliere e riconoscere l’ispirazione come una forza tanto inspiegabile, quanto involontaria. La cultura letteraria è, per lui, un supporto secondario, in certi casi addirittura un ostacolo alla spontaneità poetica.
La grandezza di Penna risiede, anche, in questo suo personalissimo pensiero coraggiosamente disallineato dalle pose culturali e dalle mode del suo tempo; egli recupera l’idea di poesia come dono innato e stato ispirato, rigettando ogni pretesa di professionalità o di scrittura come mestiere.
La poesia, l’arte in generale, non può e non deve essere concepita come una mera attività produttiva, seppur gloriosamente inutile, perché i tempi e i modi dell’ispirazione sono assolutamente capricciosi e imprevedibili, oziosi e liberi quando autentici.
Penna guarda con scetticismo ogni borghesismo letterario, ogni uniformità stilistica o posa di mestiere, crede profondamente in una poesia sorgiva, che sgorga misteriosamente con naturalezza ispirata. Prosegue nel suo ricordo la Ginzburg:
Molto più tardi, compresi però che la grandezza della sua poesia, ignara e involontaria, aveva radici nella sua grande innocenza e nel suo modo candido e libero di esistere al mondo: ed erano, la grandezza e la libertà, ugualmente involontarie e ignare, e piovute su di lui per una miracolosa grazia.3
C’è in Penna, inoltre, qualcosa del lirismo laconico dei monaci Zen, dello haiku giapponese, quell’estatica contemplazione della natura nella sua essenza transitoria e mutevole:
Dello spirito che anima i maestri della poesia giapponese classica, Penna possiede tutto l’essenziale: il gusto di un linguaggio “povero”, poiché solo ciò che è wabi (spoglio, inappariscente, filtrato da un sistematico understatement) può brillare di un’intima luce; l’attenzione per “tutte” le cose, in primo luogo le più umili; il sentimento struggente del tempo; l’intuizione che il mondo è, nel suo nocciolo, un mistero profondo e insondabile.4
Nelle poesie di Sandro Penna, come in fugaci illuminazioni Zen, assistiamo alla manifestazione dell’assoluto nel quotidiano, oppure, utilizzando una terminologia squisitamente taoista, del celeste (tian) nell’umano (ren); queste polarità, antitetiche ma complementari, emergono spesso nei suoi testi poetici:
Come è bella la luna di dicembre
che guarda calma tramontare l’anno.
Mentre i treni si affannano si affannano
a quei fuochi stranissimi ella sorride.5
La fuga mundi diventa, in Penna, oltre che una condizione esistenziale, una pratica estetica indispensabile per sondare il fondo celeste delle cose, per abbandonarsi, in mistica solitudine, al doloroso incanto della vita:
Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento.Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.La luna si nasconde e poi riappare
– lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare.6
Cesare Garboli colse brillantemente le ragioni profonde di questo esonero volontario del poeta dalla realtà umana circostante:
La grandezza di Penna – grandezza unica nel nostro secolo – sta infine in una scelta radicale ed estrema. Penna è il solo poeta del Novecento (non solo italiano) il quale non sia mai sceso a patti, per nessuna ragione, con la realtà ideologica, morale, politica, sociale, intellettuale del mondo in cui viviamo. Mai che Penna abbia frequentato, anche solo per un istante, questa realtà. Non la contestava, non la protestava. Delle idee del secolo, Penna aveva anzi rispetto; ma era il rispetto di uno scienziato, il quale osservi, incuriosito, un gioco di fanciulli. Penna aveva rifiutato il mondo degli adulti; lo aveva rifiutato come un mondo insignificante, un po’ volgare, un po’ miserabile; un mondo fatto di loschi affari e di vanità risapute, di angosce meschine e di ridicoli imbrogli.7
L’esistenza ritirata, disimpegnata, è tanto rischiosa, quanto immensamente libera e vitale; Sandro Penna, come un eremita o un monaco orientale, decise di percorrerla orgogliosamente, con la saggezza di colui che accetta l’inevitabilità del destino.
Il fulcro poetico di Penna, affine all’essenza profonda del Tao, è il moto pendolare di perenne alternanza degli opposti; nelle sue poesie, come nella sensibilità orientale, ogni emozione porta con sé l’ombra della sua inversione, ogni lieta bellezza si rivela intrisa di tristezza e viceversa:
Nella notte profonda
si consumano le stelle.
Un dolore m’innonda:
un amor di cose belle.8
Sandro Penna, similmente ai fanciulli che spesso aleggiano nelle sue poesie, si sente estraneo al mondo degli adulti e lo attraversa controcorrente, calandosi nel corso spontaneo della vita, affidandosi solamente al mistero del proprio destino di poeta.
Note
- Natalia Ginzburg, Sandro Penna, in: Sandro Penna, Il viaggiatore insonne, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2002, pp. 9-10. ↩︎
- Sandro Penna, Poesie, prose e diari, Mondadori, Milano 2017, p. 754. ↩︎
- Natalia Ginzburg, op. cit., p. 10. ↩︎
- Paolo Lagazzi, Penna e l’Oriente, in: AA. VV., Trasparenze n. 14, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2002, p. 46. ↩︎
- Sandro Penna, Poesie, Garzanti, Milano 1990, p. 220. ↩︎
- Ivi, p. 18. ↩︎
- Cesare Garboli, Prefazione a: Sandro Penna, Poesie, Garzanti, Milano 1990, p. XIII. ↩︎
- Sandro Penna, Poesie, op. cit., p. 276. ↩︎