Crass
Di Stefano Marullo
Molti ricordano i Clash. Ma in quel periodo c’erano anche i Crass. Che non amavano per nulla essere confusi con i Clash; “Ci hanno detto che siamo spazzatura, ma il nome è Crass non Clash” (da “White Punks On Hope”). A dirla tutta, era scoppiato il punk in Inghilterra ma a guardare i Sex Pistols o i Clash, con i loro “God Save the Queen” o “White Riot”, avevi la sensazione che c’era qualcosa di artificioso e inautentico. Johnny Rotten gettò la spugna in un famoso concerto a San Francisco durante un disastroso tour statunitense: “Avete mai avuto l’impressione di essere stati truffati?”. Quanto ai Clash, ben presto abbandonarono la loro immagine di cattivi per andare verso lidi sempre più rosei ed entrare nello star system. Ma pensateci un po’: quelli che cantavano “I’m So Bored With U.S.A”, si esibiranno in un teatro di Manhattan per molte settimane e il loro quinto album Combat Rock, che non c’entra nulla con il punk, sarà il più venduto negli Stati Uniti! La lezione di Patti Smith che cantava: “So you want be a rock’n’roll star” non poteva che essere più vera.
Ma torniamo ai Crass (che persino a Patti Smith non le mandavano a dire). Non erano simpatici e non aspiravano ad esserlo. Detestavano le mode e il mainstream. Quando le case discografiche cominciarono a dare loro due o tre regole per non avere troppi problemi con Scotland Yard per i testi considerati blasfemi, i Crass, che nei primi anni Ottanta erano quello che oggi è il gruppo di Charlie Hebdo, decisero di fare da soli. Dalla comune anarchica, nata già alla fine degli anni Sessanta, la Dual House, approdarono alla creazione della Crass Records, secondo il motto Do it yourself che verrà ripreso da tanti gruppi hardcore che dell’autoproduzione faranno una bandiera, e che divenne una vera fucina per moltissimi gruppi (Flux of Pink Indians, Zounds, Million Dead Cops, Mob, Conflict, Poison Girls, Rudimentary Peni per fare qualche nome) di quella linea di pensiero chiamato per l’appunto ‘anarco-punk’, che riteneva insomma che il punk fosse qualcosa di più di una rivoluzione musicale a base di scarno rock’n’roll.

In fondo, qualsiasi cosa avesse rappresentato il punk loro, i Crass, ne sono stati i rappresentanti più coerenti e forse il punk è finito con loro. (“Non siamo mai stati un gruppo punk ma se vogliono chiamarci così facciano pure”). Poi, il primato del messaggio politico per i Crass ha prevalso su tutto, anche sulla musica che è sgraziata e essenziale, quasi un orpello secondario, mentre i testi sono abrasivi e ferocissimi. A scanso però di equivoci, nonostante pressioni e censure ed anche condanne in qualche caso, che hanno letteralmente prosciugato le loro risorse finanziarie, i Crass nei loro concerti, che spesso si trasformavano in grandi dibattiti con il pubblico, richiamavano migliaia di persone provenienti da ogni parte del Regno Unito e in qualche caso dall’estero. A volte erano aree improvvisate e stabili occupati, perché nei club, anche più underground, i Crass non erano graditi.
Quando parteciparono al Rock Against Racism, dissero agli organizzatori che avrebbero rinunciato al cachet per “offrire il denaro per la causa” e si sentirono rispondere “è questa la causa!”. L’album Penis Envy interamente cantato dalle due vocalist del gruppo dai forti temi femministi, vittima dei soliti boicottaggi (la EMI aveva vietato a tutti i suoi dipendenti di avere anche solo contatti con i Crass!), arrivò al 15esimo posto delle hit inglesi, per poi sparire misteriosamente. Qualcuno provò anche a strumentalizzare i Nostri offrendo contratti di migliaia di sterline (dissero che anche la rivoluzione può fare marketing) ma fu fragorosamente deluso. Di più, nel momento della loro massima popolarità, quando presero in giro i servizi segreti di mezzo mondo, registrando un falso dialogo tra Ronald Reagan e Margareth Tatcher in cui si parlava di un eventuale guerra nucleare da spostare in Europa, decisero di sciogliersi (era il 1984 e i Crass tornavano da un concerto a favore dei minatori in sciopero) continuando a fare politica in altri ambiti e in sordina mentre di tanto in tanto si vedono in qualche reunion o progetto musicale di solito per scopi umanitari.
Sulla loro leggendaria carriera segnalo il libro antologico Crass Bomb a cura della milanese Agenzia X del 2010 e il film documentario The sound of free speech(2023) di Brandon Spivey, che racconta la storia del collettivo dagli inizi.
Ho scelto di farvi ascoltare il loro pezzo più iconoclasta (dopo “Reality Asylum” contro Gesù) Punk is Dead, dove cantano disincantati: “Sì è vero, il punk è morto, è solo un altro prodotto a buon mercato per la testa dei consumatori, non è per la rivoluzione, è solo per soldi, il punk è diventato una moda come un tempo era essere hippy, non ha niente a che fare con te o me, i movimenti sono sistemi e sistemi uccidono, beh, sono stanco di guardare attraverso le vetrate di merda, stanco di fissare un culo da superstar, guardo e capisco che non significa niente”.