Frammenti di un colloquio

Di Cristi Marcì

Una volta abbassate le palpebre, sono scivolata in un mondo dove realtà e fantasia sono esplose in un’alchimia di colori, mescolando il sogno alla finzione e intingendo di chiaroscuri ogni mia vana interpretazione.

Distesa sulla morbida chaise-longue del suo studio, la voce profonda della dottoressa Mantovani si insinuava in qualunque spazio del corpo dove organi a me sconosciuti si erano pian piano intrisi di vischiosi pensieri, sfociati nel tempo in nuovi e indecifrabili battiti del cuore.

Da due mesi le parole di quella giovane terapeuta mi conducevano in territori dove mi ero ripromessa di non tornare mai più e mi aiutavano ad attraversare geografie sfocate dall’ottusa convinzione che tutto stava ormai per terminare, senza rimedio alcuno.

Le mie capacità di resilienza, a detta di Margherita Mantovani, si stavano gradualmente spegnendo per cedere il posto a qualcosa di nuovo, simile a un parto doloroso.

Spesso mi chiedevo se tutto questo fosse reale perché a volte avevo la sensazione di assorbire frasi gonfie di tecnicismi racimolate su chissà quale manuale ma prive di un fondamento logico.

Quando le pronunciava vedevo le parole volteggiare tra le pareti della stanza per poi dissolversi una volta per tutte sul parquet in legno ricoperto da un tappeto rosso.

Nelle ultime sedute adoperava sempre di più un linguaggio un po’ fuori dal comune, mi invitava puntualmente ad accogliere emozioni e sensazioni vissute in un dato momento della giornata e a dargli una forma, un colore o addirittura un nome.

All’inizio mi era sembrata tutta una vagonata di idiozie da pagare a un prezzo smisurato per un’ora alla settimana, poi durante il weekend era accaduto uno di quegli imprevisti capaci di rimettere in discussione ogni mia banale certezza.

Mentre cercavo per l’ennesima volta di far quadrare i conti relativi a tutti gli arretrati da pagare, tra cui le bollette del gas, della luce e tutte le altre stupide tasse imposte dallo stato, sulla ringhiera del balcone della cucina si era adagiato un merlo dal becco arancione, dal piumaggio nero e lucente.

Lasciando quei fogli stropicciati macchiati di inchiostro e intrisi di tutta la mia frustrazione mi ero alzata lentamente, pescato qualche briciola di pane della sera prima e l’avevo stretta nel pugno della mano.

Incuriosito, il merlo aveva compiuto un balzo verso la finestra quasi aspettasse il banchetto pomeridiano.

Una volta fuori mi sono seduta con cautela evitando il minimo rumore possibile, non volevo spaventarlo ma solo stare in compagnia di quell’essere vivente in grado di scacciare con un battito d’ali tutte le nevrosi comuni alla razza umana.

Aprii il palmo della mano e il suo becco appuntito prese a punzecchiarmi dolcemente la pelle, senza beccare le tracce di quanto mi ero inferta nei giorni precedenti.

Si era trattato di un singolo episodio, desideravo soltanto sentire e percepire finanche l’ultimo briciolo di vita in un corpo che sentivo spegnersi giorno dopo giorno.

Rivedevo ogni singolo frammento di quella terribile notte, sembrava un cortometraggio a ritroso nel tempo azionato da uno stato incoscienza e da quel semplice gesto consumato nella mia mano, dove il merlo, aveva mangiato tutte le molliche.

“Ora se ne va” ho pensato con una punta di malinconia e invece si era appollaiato sopra le mie cicatrici, protetto dalle mie dita, distribuendo un tepore lungo la tutta mia pelle.

Rimasi immobile, con le spalle appoggiate al muro e il sole pomeridiano a illuminare la vicinanza di due corpi in cerca di un riparo antico: lontano da tutto e da tutti.

“Poi cosa è successo Beatrice?”.

“Mi sono addormentata e ho sognato… non accadeva da un sacco di tempo”.

“E il merlo?”.

“Quando ho riaperto gli occhi era volato via, ma la cosa più sorprendente era essermi resa conto di aver dormito per ben tre ore di seguito”.

“…”.

“Mi sentivo disorientata, qualcosa dentro di me non voleva mi riconnettessi con l’ordinario, però…”.

“Sì, Beatrice?”.

“Per la prima volta non ho avuto paura di quel piccolo vuoto lasciato sul palmo della mano… sentivo una pace sconosciuta farsi strada dentro di me e ogni cosa mi era apparsa… nuova… come se la vedessi per la prima volta”.

“Come ti sei sentita?”.

“Stranamente… completa, mi stavo affacciando al mondo in una maniera diversa”.

“Hai… più sentito l’urgenza di procurarti… altre ferite durante il resto del weekend?”.

“No, davvero… ho iniziato a vedere i problemi economici e la fine del rapporto con Paolo come delle zavorre dalle quali separarsi… sì… per sempre”.

“Hai provato a dare un nome o un colore a questa esperienza?”.

“Sa dottoressa è assurdo, ma ci ha pensato quello stesso pomeriggio il sogno”.

“Davvero, cosa hai sognato?”.

“Mentre dormivo sentivo una leggera brezza estiva accarezzarmi le guance e scompigliarmi i capelli, forse il mio inconscio ha captato il soffio dell’aria come elemento principale per dare un volto a quanto si è manifestato durante quelle ore sul balcone”.

“Ti va di raccontarmelo?”.        

“Sì” risposi facendo un profondo respiro.

Nella mia mente si è formata pian piano un’immagine.      

L’immagine di una me in un grande prato verde, dove stazionava placida una gigantesca mongolfiera.

La vedevo per la prima volta, ed era lì per me.

Ero emozionata, anzi emozionatissima.

Era un grande pallone adornato di tantissimi colori.

Lo osservavo incantata, ne percepivo la maestosità e l’ingegnosa fattezza.                      

Contemplavo le sue tinte rincorrersi lungo tutta la superficie, mentre immaginavo il momento in cui quegli stessi colori avrebbero brillato nell’azzurro del cielo.

Quel pallone riposava sull’erba ma con il mio respiro potevo rianimarlo, il mio calore se opportunamente dosato avrebbe reso l’aria al suo interno meno densa permettendogli così di librarsi il più in alto possibile.

La sua cesta era un fitto miscuglio di materiali flessibili, elastici ma decisamente solidi e forti, un intreccio che racchiudeva uno spazio comodo e intimo.

Dentro la cesta c’era tutto il necessario per affrontare il viaggio, tutto ciò di cui avevo bisogno per intraprendere il mio cammino.                

Era giunto il momento.

Mi sono avvicinata alla fonte di calore e ho iniziato a riscaldare l’aria nel pallone mentre iniziava ad assumere una disposizione diversa disponendosi quasi per magia proprio sopra alla cesta: era maestoso e al contempo delicato.                

Allentando le corde ho sciolto i nodi che tenevano la mongolfiera ancorata al suolo.                  

Una volta nella cesta forse avrei voluto qualcuno accanto a me… ma non c’era nessuno.

Il pallone con i suoi colori brillanti era sopra di me, sentivo la sua protezione.    

Così ho regolato il calore, i cavi e i nastri hanno iniziato a tendersi.                     

Sentivo che era giunto il momento di staccarsi da terra, mancava poco ma qualcosa mi tratteneva.

Chissà, forse dovevo respirare un po’ di più ma non servirà a nulla mi sono detta, perché la cesta era troppo carica e bisognava semplicemente alleggerirla.

Così mi sono guardata attorno e mi sono accorta che sul bordo della cesta e sul suo pavimento c’erano dei sacchetti di varie dimensioni, colori e pesi differenti.

Li ho osservati bene per qualche istante, “non avere fretta” mi sono detta, “toccali, annusali, soppesali, se vuoi guardaci dentro ma non essere frettolosa” mi sono ripetuta.             

Mentre li osservavo attentamente sentivo perfettamente di cosa si trattava, sapevo cosa contenevano, ma soprattutto quali e quanti sacchetti dovevo lasciare a terra per intraprendere il mio viaggio.     

Sapevo quali erano i sacchetti con cui alleggerire la cesta perché la mongolfiera potesse spiccare il suo volo.  

Così ho iniziato a lasciar cadere a terra un sacchetto, forse un altro e un altro ancora.                 

La cesta ha sussultato, forse occorre rilasciare ancora qualche fardello ho pensato.                     

La cesta ha sussulta di nuovo e infine con un movimento gioioso ed elegante ha iniziato il suo viaggio staccandosi da terra, dolcemente, silenziosamente.                    

Ho iniziato il mio viaggio e abilmente con una padronanza che non credevo di possedere mi sono ritrovata a gestire armonicamente il mio respiro, i pensieri e le mie paure.

La mongolfiera si librava nel cielo all’altezza che desideravo, alla velocità che preferivo, nella direzione che sceglievo.

La sapevo guidare.                

Sopra di me e attorno a me c’era solo l’azzurro del cielo, sotto invece il verde rigenerante della terra.

L’aria era fresca, pura, piena di libertà, piena di vita.

Sono rimasta in silenzio a osservare stupita quello da cui ero circondata e a godere delle sensazioni e delle emozioni che stavo provando.                

Ero in viaggio, dottoressa.

Ero Libera.                

*

Immagine: Johann Heinrich Füssli, L’incubo (The Nightmare), 1781 (particolare).


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